Lorenzo Simoncelli, pagina99 11/10/2014, 11 ottobre 2014
NEANCHE NEL BOTSWANA UN DIAMANTE È PER SEMPRE
GABORONE. A quattro chilometri di distanza dall’aeroporto di Gaborone, capitale del Botswana, uno dei pochi Paesi virtuosi dell’Africa sub-sahariana, si erge maestoso nel mezzo della savana un complesso di 35 mila metri quadrati con alte mura di protezione e telecamere ovunque. È il Debswana Complex, il quartier generale di una società compartecipata 50-50 tra la famiglia De Beers, ormai nelle mani del gigante minerario Anglo-Gold ma ancora leader mondiale nella vendita di diamanti, e lo Stato del Botswana. Da qui esce il 40% del rifornimento annuo di diamanti grezzi.
Il piccolo Paese sub-sahariano (2,1 milioni di persone), insieme alla Repubblica democratica del Congo, è primo al mondo per produzione di diamanti grezzi, 22 milioni di carati all’anno (dati Statista.com).
La maggior parte viene estratta da Jwaneng (culla delle piccole pietre in Setswana, la lingua locale), una miniera scoperta nel 1982, capace di produrre circa 2,5 milioni di carati al mese (un carato vale tra i 3 mila e i 26 mila dollari a seconda di colore e brillantezza), garantendo un fatturato da 6 miliardi di dollari all’anno.
Nel 2006 De Beers si è assicurata i diritti di estrazione per i successivi 25 anni. Vedendosi costretta, tuttavia, a scendere a patti con il governo locale.
Il 15% delle pietre preziose va direttamente all’Okavango Diamond Company, al 100% nelle mani dello Stato, che ha il diritto di vendere i diamanti a qualsiasi cliente. Un canale che garantisce un terzo del Pil al Paese, la cui economia si basa di fatto sull’export delle pietre preziose. Nell’accordo è previsto che nelle casse di Gaborone De Beers debba anche versare le tasse e il 75% dei guadagni delle proprie esportazioni.
L’80% dei proventi rimane dunque nel Paese. Un patto che lascia soddisfatta anche la multinazionale sudafricana. Per il Ceo di De Beers Philippe Mellier, «con questa mossa portiamo il mercato dei diamanti in una nuova era della storia».
Questo modello produttivo è in effetti unico in Africa, dove spesso vige la nazionalizzazione delle miniere, come in Zimbabwe e Zambia (con risultati pessimi), e fa invidia ai vicini di casa del Sudafrica, un tempo l’Olimpo dell’estrazione delle pietre preziose e oggi relegato al 53° posto su 112 Paesi in termini di attrazione per investitori esteri (dati Fraser Institute).
«Il Botswana è unico, ha miniere ricche e produttive e un governo stabile e affidabile» ha confermato James Suzman, ex capo delle relazioni esterne di De Beers. Anche se si trova da 48 anni al potere, ossia dall’indipendenza britannica del 1966, il Botswana Democratic Party – che quasi sicuramente vincerà anche le elezioni del prossimo 24 ottobre – ha garantito lo sviluppo della più antica democrazia multipartitica funzionante nel Continente. Risultato certificato anche dal Mo Ibrahim Index, che ha consegnato a Gaborone lo scettro di Paese meno corrotto d’Africa. Se a questo si aggiunge una crescita economica media del 9% tra il 1966 (anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna) e il 1999, la più alta al mondo, si capisce perché il Botswana si è trasformato nella mecca dell’estrazione diamantifera.
Ma i problemi non mancano. A cominciare dal tempo. L’aumento della richiesta, soprattutto asiatica – che nel 2016 varrà il 28% della domanda mondiale – sta riducendo la quantità delle pietre preziose in superficie (passata da 33,6 milioni di carati nel 2007 a 22,7 lo scorso anno), costringendo le aziende a scavare più a fondo, e con costi maggiori. «Le principali miniere sono state ormai sfruttate dai grandi gruppi e difficilmente si troveranno nuove cave di rilevanza comparabile» ha detto a pagina99 Keith Whitelock, ingegnere minerario attivo da 60 anni nel settore.
Il 2030 è considerato l’anno limite in cui, almeno in Botswana, i diamanti potrebbero essere finiti.
Ed è proprio pensando al futuro che il governo di Gaborone, attraverso un nuovo accordo con De Beers, ha di fatto costretto l’azienda sudafricana a spostare anche il reparto manifatturiero e vendita nel Paese, nel tentativo di trasformare il Botswana nel primo Paese al mondo a filiera completa: estrazione, produzione e vendita.
Un’operazione storica, che ha costretto De Beers a spostare il 60% del suo personale da Londra e a vendere per la prima volta, nel 2013, le proprie pietre a Gaborone invece che nella City. Un progetto di cui beneficia buona parte della popolazione. Il 50% degli impiegati delle vendite è autoctono e sono state già costituite 21 aziende manifatturiere che impiegano 3.200 persone.
Tuttavia la qualità della lavorazione, almeno rispetto ai grandi centri come Tel Aviv o Anversa, è ancora scarsa. I costi di produzione sono ancora troppo alti, tra i 40 e i 60 dollari al carato. Dai 30 ai 50 carati in più dell’India, da cui proviene il 60% della lavorazione mondiale. Si aggiunga la carenza di infrastrutture, cui pure il presidente sta mettendo mano, preferendo tuttavia investire sulla diversificazione economica del Paese. Ciò che serve per affrancarsi da una dipendenza integrale dall’estrazione mineraria. Perché, al contrario di ciò che dice lo slogan di De Beers, un diamante non è per sempre.