Dario Fabbri, pagina99 11/10/2014, 11 ottobre 2014
LA STELLA SOLITARIA DEL SOGNO TEXANO
In Texas indipendentismo e idiosincrasia per l’ingerenza di Washington si intrecciano da oltre un secolo nei sentimenti della popolazione, al punto che è spesso assai complicato rintracciare un principio di causalità tra le due tendenze. Stato più esteso dell’Unione e unico soggetto federato con un passato da Repubblica, il Lone Star State (nomen omen) è da sempre attraversato da pulsioni secessioniste. Eppure, le rivendicazioni di leader e cittadini locali tradiscono uno spirito eminentemente americano. Perfino nell’attuale fase di revival autonomista, in cui il Texas sembrerebbe disposto ad abbandonare gli Stati Uniti.
La percepita alterità pervade la cultura e le usanze statali. Le vie di Austin – capitale consacrata al fondatore della Repubblica, Stephen Austin – sono dedicate pressoché esclusivamente alle battaglie e ai personaggi della rivoluzione indigena: San Jacinto, Gonzales, Lamar, Bowie. A Houston – megalopoli eponima del primo presidente texano Sam Houston – la monumentale Washington Avenue non è intitolata al ben più celebre George, ma a Washington sul Brazos, la cittadina in cui fu pensata l’offensiva anti-messicana. Da queste parti l’aggettivo “nazionale” si usa per indicare il “locale”: la birra Lone Star è la national beer e il football è il national pastime, in contrapposizione con il baseball passatempo preferito dal resto degli Usa. A scuola gli studenti apprendono di un periodo aureo in cui qui «vigeva la totale autodeterminazione». E il sincopato inglese parlato dai texani (drawl) ha caratteristiche uniche nel panorama continentale.
Oltre alle reminiscenze repubblicane, ad alimentare l’anelito indipendentista sono i connotati economici e strategici dello stato. Il Texas è il principale produttore di gas degli Stati Uniti e possiede le maggiori riserve di petrolio del paese (quasi 10 miliardi di barili, un terzo del totale). Proprio la straordinaria disponibilità di idrocarburi, caso unico in Nord America, consente ad Austin di avere una griglia elettrica autonoma che, qualora gli Usa fossero oggetto di un attacco cibernetico, manterrebbe acceso unicamente lo Stato della stella solitaria.
Ciò nonostante, è solo con la fine della guerra fredda che l’indipendentismo torna a ispirare movimenti politici, violenti e pacifici, e a riscuotere consensi tra la popolazione locale. Nel 1989 il rancher Rick McLaren fonda la compagine Republic of Texas che persegue la secessione da Washington e si batte contro «l’occupazione statunitense». No-global e fondamentalista cristiano, McLaren ritiene la lotta armata l’unico mezzo per raggiungere l’emancipazione politica. Nel 1997, dopo aver preso in ostaggio una coppia di anziani che si rifiuta di cedere il proprio terreno alla “repubblica texana”, si asserraglia armato assieme ad altri sei attivisti nel suo ranch di Fort Davis, prima di arrendersi alla polizia. Accusato di sequestro di persona e attività eversiva, nel 2000 viene condannato a 99 anni di carcere.
Sulle ceneri della Republic of Texas emerge in seguito il Movimento Nazionalista Texano (Tnm) guidato da Daniel Miller, che mira alla secessione pacifica. Abile a sfruttare il malcontento popolare generato dalla crisi economica e dalle successive riforme approvate a Washington, negli anni Duemila Miller riesce a conquistare fette di elettorato avulse alla politica e a collocarsi nella galassia del Tea Party.
Oggi risultano iscritti al Tnm oltre 250 mila cittadini e il partito può vantare solidi legami con numerosi deputati statali. Addirittura, secondo un sondaggio del 2009 – il più recente in materia – il 42% dei texani sarebbe pronto a votare l’indipendenza propugnata da soggetti come il Tnm.
Tuttavia, proprio tale successo palesa la radice americana del secessionismo texano. Sebbene animati da ardore libertario, i fondatori della leggendaria Repubblica, le cui gesta costituiscono tuttora la scintilla delle rivendicazioni locali, si sentivano profondamente statunitensi. Durante la guerra rivoluzionaria Stephen Austin chiese più volte l’intervento militare degli Usa e già nel marzo del 1836, pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica, Sam Houston propose al presidente Andrew Jackson di incorporare il territorio strappato ai messicani.
Allo stesso modo il governatore Rick Perry, che pure nel 2009 durante un comizio s’è detto favorevole alla secessione, probabilmente nel 2016 si candiderà alla Casa Bianca per la seconda volta consecutiva. Come accaduto un secolo fa, ad animare le istanze autonomiste non sono ragioni di carattere etnico o religioso, quanto gli americanissimi desideri di autodeterminazione e agevolazioni fiscali. Piuttosto che immaginarsi nazione, i texani rimpiangono l’alba della costruzione statale, quando i coloni abbandonavano i territori d’origine in cerca di condizioni di vita più favorevoli. E oggi, tendenzialmente conservatori, vedono nella minacciata indipendenza l’antidoto contro la deriva liberal di Washington e il declino economico. Senza rinnegare il peculiare spirito americano che li anima inconsapevolmente.