Simone Battaggia, La Gazzetta dello Sport 15/10/2014, 15 ottobre 2014
MISTER OLIMPIADE DICE STOP
Tutto torna. C’è un momento, durante la conferenza stampa dell’addio, in cui l’emozione rompe i nervi di ghiaccio e spezza la voce di Armin Zoeggeler. Succede quando ringrazia il papà e la mamma. C’erano loro, in quel giorno d’estate del 1988, seduti attorno al tavolo nella cucina del maso, ad ascoltare le parole di un allenatore juniores, Karl Brunner, e a dire che sì, forse valeva la pena che il loro Armin provasse a diventare un atleta professionista. E non possono che esserci loro nel cuore di Armin, 26 anni dopo le parole di mamma Rosa («Provaci Armin, se non lo fai non potrai mai sapere»), ora che quella sfida si chiude e bisogna annunciare al mondo che è finita la carriera del più grande slittinista di sempre. L’unico atleta della storia olimpica - estiva e invernale - ad aver vinto sei medaglie in sei edizioni dei Giochi nella stessa disciplina individuale. Divisa dei Carabinieri invernale che lo fa sudare ancora di più, Zoeggeler inizia il discorso come se l’avesse imparato a memoria. Poi, minuto dopo minuto si distende, trova qualche battuta («Sarà più difficile in tedesco che in italiano» gigioneggia quando gli viene chiesto di ripetersi nella lingua madre). Appare comunque convinto che sia la decisione giusta. «Dopo Sochi, il mio corpo e il mio istinto mi avevano detto che era il momento di mollare. Ho voluto pensarci qualche mese, perché la decisione non fosse dettata dall’emozione».
Ne ha parlato anche a suo padre?
«No, con papà no. Ne ho parlato con mia moglie, ho preso la decisione in estate. Certo, un conto è pensarlo e un conto è venire a dirlo davanti a sessanta giornalisti. Sono molto emozionato».
Cosa le hanno dato 25 anni di slittino?
«Molto. E’ stato un bel tempo. Ho incontrato persone, gente nuova, ho visto tanti paesi. Sono sono cresciuto come uomo».
Esordì nel 1989 a Calgary. Aveva 15 anni.
«Quando capii che grazie allo slittino avrei visto l’America, non volevo crederci. Per me era quella cosa che si vede in tv».
Come si fa a gareggiare e a vincere per 25 anni in una disciplina di cui si parla così poco?
«Servono disciplina, voglia e passione. Se non hai la passione, fatichi ad allenarti e ad alzarti presto».
Il successo cui è più legato?
«Torino 2006».
E la pista che l’ha fatta tremare di più?
«Vancouver. Sapevamo che era veloce, avevamo toccato anche i 150 km/h, ma non avrei mai pensato che lì qualcuno avrebbe potuto uccidersi».
La tragedia di Nodar Kumaritashvili ai Giochi del 2010 è ancora viva nella sua mente.
«Certo. E’ stato il momento più doloroso della mia carriera».
Ha mai rivisto quelle immagini?
«Da atleta non ci sono mai riuscito. Ora che non gareggio più, probabilmente ce la farò».
Salirà mai più su una slitta?
«No. Non sarei più preparato a farlo, e se non sei pronto al cento per cento lo slittino diventa pericoloso».
Qual è il suo nuovo ruolo?
«Sarò responsabile della ricerca e dello sviluppo nei materiali, in collaborazione con Coni, Fisi e Ferrari».
E’ ciò che desiderava?
«Per ora sì. E’ qualcosa in cui mi posso identificare».
E il sogno a lungo termine?
«Ce l’ho ma non posso entrare nei dettagli. Penso però a creare una squadra che possa vincere Mondiali e Olimpiadi. E che continui a crescere».
Ha mai riguardato i suoi successi?
«Ho sempre analizzato le immagini per studiare le mie gare, ma non le ho mai riviste per piacere personale. Con la famiglia ho riguardato la cerimonia d’apertura di Sochi da portabandiera. I miei figli l’avevano seguita in diretta ma volevano rivederla con me».
Che farà domani?
«Andrò a caccia» .