Carlotta Scozzari, il Fatto Quotidiano 15/10/2014, 15 ottobre 2014
LA MARCEGAGLIA VUOLE COMPRARE L’ILVA. PENSA CHE UNIRE DUE DEBOLEZZE ALLA FINE FARÀ NASCERE UNA FORZA
Quelli dei due gruppi italiani dell’acciaio Ilva e Marcegaglia, parafrasando i Tiromancino, sono “due destini che si uniscono”, con l’aiuto fondamentale di Arcelor Mittal e la benedizione speciale delle banche. La compratrice in questa fase più accreditata per rilevare l’Ilva, l’acciaieria più grande di Europa commissariata nel 2013, sembra essere l’Arcelor Mittal. Il colosso mondiale del settore nato sull’asse franco indiano e con base in Lussemburgo, però, non farà tutto da solo: sarà "appoggiato" dal gruppo Marcegaglia , dell’omonima famiglia dei due fratelli Antonio, che ne è presidente, ed Emma, già numero uno di Confindustria dal 2008 al 2012 e la primavera scorsa scelta dal premier Matteo Renzi per la presidenza dell’Eni.
Il disegno di salvataggio dell’Ilva, che incrocia diversi piani, economici, politici ma anche giudiziari e sociali, è complesso, ma sembra chiaro fin da ora che, se l’operazione andrà a buon fine, a guadagnarci saranno le banche. Unendo le sorti dell’Ilva e del gruppo Marcegaglia, per il tramite di non poco conto del colosso Arcelor Mittal, si mettono insieme due debolezze, schema tra i più collaudati nella finanza di casa nostra. Le difficoltà dell’Ilva sono note ed evidenti con la maxi inchiesta del 2012 della Procura di Taranto sull’inquinamento e il disastro ambientale causato dallo stabilimento Ilva. I guai giudiziari, in un contesto di crisi economica, si sono trasformati in problemi finanziari: si stima che Ilva perda 50 milioni al mese.
La principale complessità con cui deve fare i conti il gruppo Marcegaglia è il fardello del debito: dal bilancio del 2013 della capogruppo emerge un’esposizione complessiva di 2,8 miliardi, su ricavi e costi della produzione rispettivamente da 3,41 e 3,36 miliardi. Il solo debito bancario pesa per 786 milioni, cui si aggiungono 354 milioni verso società di factoring. Gli istituti più esposti sono il Banco Popolare, Intesa Sanpaolo, Unicredit e Bnl, che a fine 2007 avevano staccato un assegno da 625 milioni alla società di famiglia dell’allora quasi presidentessa di Confindustria. All’epoca già spiravano venti di crisi sull’economia, tanto che un recente bilancio del gruppo riconosce che il prestito è stato ottenuto “a ottime condizioni, in un contesto di relativa stretta del sistema finanziario”.
Sarà un caso, ma Intesa, Unicredit e il Banco Popolare sono gli stessi istituti esposti con l’Ilva, sulla quale grava un indebitamento finanziario stimato a fine 2013 - anno per cui mancano conti ufficiali - sugli 1,1 miliardi (1,25 nel 2012). Le tre banche a settembre hanno finanziato la società per “appena” 250 milioni, contro i 650 che aveva chiesto il commissario straordinario Piero Gnudi. La prima tranche da 125 milioni pare sia già andata esaurita, mentre per la seconda i creditori attendono i dettagli dell’offerta del compratore, Arcelor più Marcegaglia. Gnudi, che proprio oggi porterà la questione Ilva davanti alla commissione Industria del Senato, ha deciso che il piano industriale dovrà prepararlo chi acquista l’acciaieria (il suo predecessore Enrico Bondi voleva invece che fosse già messo a punto prima della vendita). Ma sul progetto dei compratori è buio fitto, anche perché, spiegano fonti vicine alla cordata, con un procedimento giudiziario in corso, si preferisce andare cauti. Ma è certo che gli offerenti non intendono accollarsi i risarcimenti di 45 anni di danni ambientali, mentre l’obiettivo di massima sembra essere quello di non mandare a casa i 15 mila lavoratori (cosa che qualcuno mette in dubbio). Il gruppo Marcegaglia, che se l’operazione andrà in porto potrebbe trovarsi con una quota di minoranza del gruppo dell’acciaieria di Taranto, nell’ultimo bilancio esclude qualsiasi “impegno finanziario”, ma fonti vicine alla società minimizzano spiegando che significa che nessun eventuale intervento aumenterà il debito verso le banche.
Se la cordata franco indiano-mantovana dovesse chiudere l’acquisto, le cose si metterebbero meglio per i finanziatori dell’Ilva, che acquisirebbero forza rispetto all’attuale fase in cui, senza un compratore certo e con la famiglia Riva indebolita, sono particolarmente esposti alle turbolenze. Unendo le sorti dell’Ilva e del gruppo Marcegaglia, con tutte le loro diverse criticità, per le banche sarà più facile rinegoziare il debito, in caso di necessità. E se poi la famiglia mantovana dovesse avere bisogno, difficilmente gli istituti creditori si tireranno indietro: nel 2007 le hanno teso la mano; oggi, con l’operazione Ilva, i ruoli sono ribaltati; e domani chissà.
Oltra all’Ilva, a rendere movimentato l’attuale periodo di Emma Marcegaglia contribuiscono diversi contenziosi aperti, come quello con l’Antitrust, che aveva sanzionato il suo gruppo, con altre società del settore “guard rail”, per una presunta intesa restrittiva della concorrenza. Poi c’è la causa penale contro il vicedirettore del Giornale e conduttore di Virus Nicola Porro, accusato di violenza privata dopo una telefonata del 2010 con il portavoce di Marcegaglia, procedimento che ripartirà da zero al foro di Roma. Senza dimenticare il polverone sollevato dallo scandalo sulla presunta tangente nigeriana dell’Eni, in relazione al quale la presidentessa del gruppo petrolifero sta adottando un profilo molto basso: pochi commenti, solo se strettamente necessari.
Emma Marcegaglia, classe 1965, dal 2013 è, inoltre, presidentessa di Business Europe, la Confindustria europea che tra gli obiettivi si prefigge quello di favorire “una gestione sostenibile delle risorse naturali” delle imprese, attenta all’ambiente. Dovrà tenerne conto all’Ilva, per la quale si stima, tra interventi di bonifica e spese ambientali e di sicurezza, un conto sui 2,4 miliardi, che Gnudi spera di abbattere con il dissequestro dei beni da 1,2 miliardi dei Riva. Sarà difficile che ci riesca, ma anche se dovesse farlo resterebbero altri 1,2 miliardi da pagare. E nessuno sa chi lo farà.
Carlotta Scozzari, il Fatto Quotidiano 15/10/2014