Carlo Di Foggia, il Fatto Quotidiano 15/10/2014, 15 ottobre 2014
I BRASILIANI NON VOGLIONO INVESTIRE IN TERMINI IMERESE. ALLA FINE SI È RIUSCITI A CARICARE IL COSTO DEL SALVATAGGIO SULLE SPALLE DELLO STATO
L’affare Grifa è sempre più avvolto nel mistero. Il principale finanziatore circolato negli ultimi mesi, si sfila dall’operazione Termini Imerese. O meglio: non sembra esserci mai entrato. Un ulteriore tassello che contribuisce a rendere ancor meno nitidi gli elementi in campo in una trattativa che appare complessa.
Senza investire soldi propri, con capitali brasiliani (che però, come vedremo, smentiscono) - una struttura societaria pensata per fare altro, l’ombra Fiat alle spalle e abbondanti finanziamenti pubblici, il neonato “Gruppo italiano fabbriche auto” potrebbe ereditare lo storico stabilimento siciliano, chiuso dal novembre 2011. Questa start up romana dal nome antico e dal pedigree arzigogolato (a oggi non si sa bene chi ci sia dietro) potrebbe riuscire dove in tanti, negli ultimi anni, hanno fallito: aiutare il Lingotto a disfarsi di un “capitolo chiuso” (secondo l’ad di Fca, Sergio Marchionne) senza troppi traumi. Fiat, infatti, sarà il principale fornitore, mentre un team di ex manager di lungo corso del Lingotto è stato reclutato per convincere gli scettici sulla tenuta del progetto: produrre, a regime, 35 mila auto ibride (ed elettriche), destinate a un mercato piccolo ma in crescita nel quale Fiat non ha modelli, e che beneficia di generosi incentivi statali distribuiti a pioggia in maniera disordinata.
Le trattative sono appena iniziate e, nonostante il giubilo degli annunci, a oggi c’è solo un verbale d’incontro siglato venerdì scorso al ministero dello Sviluppo economico. La promessa di riassorbire tutti i 760 operai Fiat e Magneti Marelli ha convinto anche la Fiom a firmare, ma chi segue le trattative ammette che i punti da chiarire sono ancora tanti, non solo sul piano occupazionale ma soprattutto su quello finanziario. A oggi, infatti, Grifa è un contenitore vuoto, con un sito internet dove campeggia una scritta in cinque lingue e nulla più. La società, creata nel marzo scorso, è guidata da Augusto Forenza, 72enne commercialista napoletano per anni amministratore e uomo di fiducia dell’imprenditore Mario Maione, ex re della pasta poi coinvolto in una serie di fallimenti societari (tra cui il Napoli Basket guidato proprio da Forenza). La Grifa è controllata dalla Energy Crotone 1, una società di energia eolica inattiva, con bilanci vuoti, e praticamente mai entrata in funzione. A monte di tutto, una finanziaria milanese amministrata dal congolese Kiala Dielunguidi, a cui risultano intestate decine di società sparse ovunque.
A compensare la strana compagine azionaria, Forenza ha chiamato uno stuolo di ex manager Fiat, da Giuseppe Ragni (dirigente anche in Alfa Romeo fino a metà degli anni 90) e Giancarlo Tonelli, ex capo risorse umane del Lingotto (che dovrebbe ricoprire lo stesso incarico), a Giovanni Battista Razelli – fratello di Eugenio, presidente di Magneti Marelli – con un passato in Ferrari e per diverso tempo responsabile per il Sudamerica della Casa torinese.
Chi mette i soldi? Stando a quanto dichiarato dagli stessi protagonisti, la Kbo Capital, una società brasiliana di consulenza in campo finanziario con sede a Ipanema, a pochi passi dalla spiaggia di Copacabana e guidata dal banchiere Roland Gerbauld, il cui fondo d’investimento è amministrato dal Banco Brj, a sua volta guidato da Luiz Augusto Queiroz. Dei 350 milioni di euro promessi come investimento da Grifa, 250 sono finanziamenti pubblici, il resto verrà versato dal fondo brasiliano nella società per rilevare il 75 per cento del capitale, passando dai 25 milioni attuali a 100. Contattato dal Fatto, però, Gerbauld ha smentito tutto: “Non c’è mai stata alcuna volontà di sottoscrivere un aumento di capitale o altro investimento, per qualsiasi importo, nella Grifa Spa o in attività connesse all’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese - spiega il banchiere - Ho già incaricato uno studio legale di prendere le opportune iniziative al fine di evitare ulteriori notizie diramate e tutelare gli interessi della società”. A fare il nome della Kbo, però, sono stati gli stessi amministratori di Grifa. Dalla società ora rispondono che, seppur con una quota maggioritaria, “Kbo non era l’unico fondo a partecipare all’operazione”. Di sicuro, però, era l’unico citato e a oggi nessuno sembra essersi preso la briga almeno di rettificare o informare il diretto interessato. Tanto più che - chiunque sia a versarli - i soldi per l’aumento di capitale non arriveranno prima del via libera definitivo al progetto. “Direi che è normale - spiega Forenza - nessuno mette soldi senza garanzie certe”.
L’idea dell’ibrido è nata dalla crescita del mercato: “Puntiamo al car sharing e c’è un importante Paese mediorientale afflitto dallo smog interessato”, spiegano dalla società. L’idea è lanciare sul mercato - entro 15 mesi - una piccola ibrida nel segmento A: una citycar di cui a oggi non esiste un prototipo, ma solo un bando per designer che si chiuderà a novembre. Obiettivo? “Presentare una versione propedeutica al prototipo vero e proprio verso aprile”. “Abbiamo tutte le figure tecniche per farlo”, spiega l’ad Forenza, che chiarisce i rapporti con Fiat: “È normale che abbiamo uno stretto dialogo con loro: saranno il principale fornitore. Tutte le case automobilistiche hanno un 75% di componenti acquistati e il restante fatto in casa”.
Motore termico e pianale (della Panda) arriveranno dal Lingotto, che di fatto si libererebbe di un peso, diventando al contempo un fornitore privilegiato. Fiat ha anche accettato di mettere risorse aggiuntive per incentivare la mobilità. Una parte dei componenti, Grifa li produrrebbe attraverso piccole società create ad hoc. L’azienda ha chiesto una cassa integrazione per “riorganizzione” da cui partiranno tutti gli operai, per poi uscirne mano a mano nell’arco di tre anni. A tutt’oggi il piano industriale non è stato ancora dettagliato a tutti i soggetti coinvolti ed è oggetto di monitoraggio. L’advisor Invitalia, la società in house del Mise incaricata di vagliare le proposte, è molto cauta: sotto osservazione è non solo il progetto, ma tutta la tenuta patrimoniale della società. Brucia ancora il fallimento della “via molisana” dell’imprenditore Massimo Di Risio: un corposo piano industriale ma con alle spalle una società gravata da debiti e contenziosi con le banche. Bocciati anche gli altri pretendenti.
A fare gola sono i 350 milioni pubblici divisi tra Stato e Regione (più altri incentivi), 200 dei quali per i contratti di sviluppo. “Sceglieremo il prestito - spiega Forenza - sono soldi a un tasso dello 0,20 per cento, ma non regalati”. Nei piani della società, il rientro avverrebbe entro i primi dieci anni.
Carlo Di Foggia, il Fatto Quotidiano 15/10/2014