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 2014  ottobre 15 Mercoledì calendario

MI IMBOTTIVO DI ANTIDEPRESSIVI E, BENCHÉ MI PIACCIA CUCINARE, CHIAMAVO IN PIENA NOTTE LA TAVOLA CALDA GIÙ ALL’ANGOLO. LORO SENTIVANO LA MIA VOCE E SAPEVANO GIÀ CHE COSA PORTARMI

Alcuni anni fa, un tempo abbastanza lontano da potersi considerare superato ma, siamo sinceri, non poi così remoto, ho attraversato un brutto periodo, ho avuto un collasso nervoso, un paio in realtà, e la cosa è andata avanti per mesi o piuttosto, a ben considerare, per anni.
Ero uscito dall’ospedale ed ero più o meno solo al mondo e sapevo che i medici erano preoccupati per me, un uomo di una certa età a casa da solo e, naturalmente, la preoccupazione dei medici faceva preoccupare anche me e, benché fossi stato dimesso, non ero, come si usa dire, fuori pericolo, e dato che mi cadevano gli oggetti dalle mani e urtavo contro i mobili e le mie capacità motorie erano ridotte, non cucinavo, il che era molto deprimente perché normalmente amo cucinare, soprattutto per gli altri e ora, invece, verso le tre del mattino — prendevo i miei farmaci la sera e quando l’ansia si placava mi veniva un po’ di appetito — prendevo il telefono e chiamavo la tavola calda in fondo alla strada, aperta 24 ore al giorno, dove un uomo o una donna prendevano la mia ordinazione, sempre la stessa tutte le notti, ogni notte più scarsa di quella precedente; non ero mai molto affamato anche se guardandomi non si sarebbe detto: le medicine mi facevano ingrassare parecchio e l’antidepressivo mi aveva già fatto un buco nello stomaco e comunque, tornando alle ordinazioni, alla fine, dopo averne fatte tante, bastava che dicessi «sono io» e loro, riconoscendo la mia voce, sapevano cosa volevo e anche se non ci siamo mai visti filavamo in perfetto accordo, forse anche perché trovavo rassicurante ripetere molte volte «grazie», come se qualunque contatto o collegamento, specialmente a quell’ora, fosse sacro: una sosta nella lenta avanzata verso il suicidio, che potenzialmente era ancora dentro di me, malgrado tutto il lavoro che avevano fatto in ospedale, tralasciando il fatto che per me, come per la maggior parte della gente con forti pulsioni suicidarie, impegni, promesse e occasionali sprazzi di luce non sempre erano utili; il problema è dentro di te, e a volte non se ne vuole andare; e sebbene il cuoco e la cameriera — è così che immaginavo l’uomo e la donna della tavola calda — non potessero saperlo, ora facevano parte della mia squadra, non come medici, più come membri della famiglia, di quelle che ti scegli da solo più avanti negli anni, quando senti la mancanza di troppe persone che se ne sono andate e, dopo un po’ di tempo, per quanto ricordi, il cibo non consumato era ovunque; la spazzatura non veniva portata fuori, buste di plastica, vassoi di alluminio, lattine di soda, tubi di ketchup, cucchiai sporchi ingombravano il baule marrone che avevo portato a scuola e che usavo ancora come tavolino; sugli scaffali della libreria che avevo costruito per uno spettacolo quando ero al college e che poi avevo portato a casa c’era parecchia roba appena assaggiata e lasciata ad ammuffire e c’erano avanzi sul futon e poi sull’altro futon e per terra, sul tappeto persiano che era stato dei miei nonni e il tempo era eterno in quel posto, questo posto, il mio soggiorno, il luogo da cui ora sto scrivendo, allora ingombro del cibo che avevo ordinato e che non avevo mangiato, gli stuzzichini e i dolci extra che cominciavano a spuntare nelle mie ordinazioni — era come se l’uomo e la donna della tavola calda provassero qualcosa che non dicevano — tante cose non richieste, tante cose non mangiate, lì non si riusciva nemmeno a camminare, e continuavano ad arrivare. Non mangiavo, ma venivo nutrito. E ora che il disordine è stato ripulito, ora che l’eternità è finita e la storia ha ripreso a scorrere, ora che c’è un allora e un oggi, penso che dovrei passare alla tavola calda e incontrarli e dire loro ciò che hanno fatto e cosa ha significato. D’altra parte potrei farne a meno. Non sono cose che si fanno: non fai amicizia con i medici, con gli infermieri e con gli angeli perché sei tornato dall’ospedale, non sei morto, le tue cellule non sono più pervase da quel fuoco autodistruttivo e, almeno per un po’, lascerò perdere, dirò le mie preghiere, prenderò le mie medicine, crederò nell’amore e cercherò di tornare ai fornelli e preparare qualcosa di buono.
(Traduzione di Antonella Cesarini)
Donald Antrim, la Repubblica 15/10/2014