varie 15/10/2014, 15 ottobre 2014
ARTICOLI SULLA CINA DAI GIORNALI DEL 15/10/2014
FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA -
Ha ospitato tutti i presidenti americani da Franklin Roosevelt in poi, nonché Marilyn Monroe e il generale MacArthur. Ha inventato per primo il “room service”, la colazione in camera. Gli chef dei suoi ristoranti ispirarono una canzone di Cole Porter, “Your’re the Top” (1934). E adesso rischia di finire sotto il controllo del partito comunista cinese che potrebbe trasformarlo in una centrale di spionaggio. E’ il Waldorf Astoria, l’hotel più ricco di leggende di Manhattan. Alla sua storia blasonata sta per aggiungersi un capitolo clamoroso. Può diventare l’avamposto dell’intelligence cinese a pochi isolati dalle Nazioni Unite. L’allarme è stato lanciato dalla rappresentanza permanente (l’equivalente di un’ambasciata) degli Usa all’Onu. Il Waldorf Astoria è stato venduto, la catena alberghiera Hilton lo aveva messo sul mercato. E la settimana scorsa era uscito il nome dell’acquirente: il gruppo assicurativo Anbang di Pechino.
All’inizio la notizia ha conquistato qualche titolo di giornale, senza drammatizzazioni. Nulla di paragonabile allo shock del 1989 quando il gruppo giapponese Mitsubishi comprò il Rockefeller Center sulla Quinta Strada. Allora quell’investimento divenne il simbolo della “invasione asiatica”. Tanto rumore per nulla: di lì a poco scoppiava la bolla speculativa nipponica, il Sol Levante entrava in depressione, e Mitsubishi rivendette la sua preda. Oggi gli americani sono abituati agli investimenti asiatici, questo spiega perché il caso Anbang è esploso a scoppio ritardato. C’è voluto un po’ di tempo, perché il Dipartimento di Stato facesse una ricerca su Anbang. La scoperta li ha raggelati: al vertice c’è un membro della nomenclatura cinese, un nipote di Deng Xiaoping, legato a doppio filo con i vertici del partito comunista. Anche questo sarebbe normale visto che le grandi aziende di Stato cinesi sono spesso guidate dai cosiddetti “principini”, i rampolli dei leader comunisti. Ma il Waldorf Astoria non è un qualsiasi hotel di lusso. Tuttora viene usato come una sorta di residenza ufficiale, dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato.
Come i suoi predecessori, Barack Obama alloggia in una suite del Waldorf al 301 di Park Avenue quando è in visita a New York. Bill e Hillary Clinton vi hanno organizzato le conferenza della loro Fondazione, con tanti leader stranieri come ospiti. Durante l’assemblea generale delle Nazioni Unite, che si tiene ogni anno a settembre e richiama al Palazzo di Vetro duecento capi di Stato e di governo, molti statisti vengono alloggiati proprio al Waldorf. Ora Kurtis Cooper, portavoce della rappresentanza Usa all’Onu, conferma che quell’acquisizione è «sotto esame nei suoi dettagli e nelle conseguenze di lungo periodo». I diplomatici americani immaginano un hotel rovesciato come un calzino, ristrutturato con microspie, sensori elettronici, gadget da spionaggio hi-tech. Ma a differenza dalle acquisizioni nei settori tecnologici e strategici, il governo americano ha pochi poteri per bloccare un investimento immobiliare: è più probabile che debba cercarsi un hotel alternativo.
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FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA -
Oltre a una chiara questione di immagine, c’è anche un aspetto legato allo spionaggio. La vendita ai cinesi del Waldorf Astoria, iconico albergo situato su Park Avenue all’ombra del Met Life Building, desta non poche preoccupazioni al governo degli Stati Uniti. Tanto che le autorità hanno avviato un’attenta indagine su quelle che potrebbero essere le ricadute in termini di sicurezza.
La transazione, perfezionata lo scorso 6 ottobre, prevede la cessione del Waldorf al colosso assicurativo del Dragone, Anbang Insurance Group, che ha rilevato l’hotel da Hilton Worldwide per una cifra di 1,95 miliardi di dollari. Secondo i termini dell’accordo però Hilton continuerà a gestire il gioiello su Park Avenue per i prossimi cento anni, e prevede al contempo «una profonda ristrutturazione» della struttura. Ed è proprio questo «lifting» a preoccupare maggiormente le autorità americane che temono possa nascondere una massiccia offensiva di spionaggio fatto di intercettazioni e altre forme di sorveglianza. Questo potrebbe inficiare il lungo e saldo rapporto che c’è tra il governo americano, le istituzioni internazionali e lo stesso albergo, che ospita numerosi ambasciatori distaccati alle vicine Nazioni Unite, membri della politica americana in visita e centinaia di diplomatici che si recano a New York, specialmente in occasione dell’assemblea generale di fine settembre.
«Abbiamo avviato una profonda revisione dei dettagli della transazione, i termini di vendita dell’albergo e i piani a lungo termine relativi alla struttura», spiega Kurtis Cooper, portavoce della Missione permanente americana al Palazzo di Vetro.
È in particolare il piano di rinnovamento della struttura quello che passerà con particolare attenzione sotto la lente di ingrandimento delle autorità americane. «Il dipartimento di Stato ha in seria considerazione la sicurezza e la riservatezza del suo personale, dei luoghi di lavoro e delle residenze», prosegue il diplomatico. Waldorf Astoria, specie in occasione dell’Assemblea generale, ospita anche molte conferenze, vertici, incontri bilaterali tra i rappresentanti dei governi dei 194 Paesi membri. Un aspetto questo che solleva ancora più perplessità.
Del resto la diffidenza degli americani nei confronti della Cina non è certo una novità, specie alla luce dei numerosi attacchi che i pirati della rete foraggiati da Pechino compiono a danno dei sistemi informatici degli Usa. E così il Dipartimento di Stato tiene costantemente sotto controllo i propri funzionari che lavorano in Cina, in particolare relativamente al rischio di essere oggetto di sorveglianza fisica ed elettronica. E sono ripetuti i moniti ai propri dipendenti di prestare particolare attenzione alla sicurezza e alla tutela di informazioni e personale qualora si dovessero recare nel Paese del Dragone. Intanto, come prima misura, il Dipartimento di Stato sta pensando di porre fine al contratto di locazione (che va avanti da mezzo secolo) dell’appartamento al 42° piano dell’hotel, quello che ospita l’ambasciatore. E resta da vedere se Obama continuerà a soggiornare nella suite presidenziale del Waldorf durante i suoi viaggi a New York.
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GUIDO SANTEVECCHI, CORRIERE DELLA SERA -
Si può essere pessimisti sullo stato della democrazia in Asia quando nel 2014 un miliardo e settecento milioni di persone sono state chiamate alle urne? Purtroppo sì.
Venticinque anni dopo l’ultima grande richiesta di democrazia, repressa nel sangue sulla Tienanmen, la Cina si trova a fare i conti con un movimento che esige elezioni a suffragio universale e con candidati liberi. Il teatro della sfida questa volta è a Hong Kong, l’esito incerto perché tutti sperano che in un quarto di secolo i «saggi dirigenti» di Pechino, ora al timone della seconda potenza economica del mondo, siano diventati più lungimiranti, se non proprio tolleranti. Da Taiwan, il presidente della Repubblica che Pechino considera solo una «provincia ribelle», ha proposto al leader cinese Xi Jinping di fare come Deng Xiaoping con le riforme economiche, avviate in «zone speciali»: perché non permettere a una città relativamente piccola come Hong Kong di andare avanti con l’esperimento democratico? Anche se Xi Jinping non farà usare la forza nelle strade di Hong Kong, non c’è da illudersi su concessioni liberali. In primavera, quando ha visitato le istituzioni europee a Bruxelles, Xi ha spiegato con naturalezza: «Monarchia costituzionale, restaurazione imperiale, parlamentarismo, multipartitismo, presidenzialismo: abbiamo considerato tutti questi sistemi e li abbiamo provati, ma non hanno funzionato, ci hanno fatto rischiare la catastrofe». La Cina resta quindi nell’era dell’incontestabile ruolo guida del partito comunista. Questo ha detto Xi in pubblico. A porte chiuse, davanti ai compagni del Politburo, è stato più chiaro. Lo spettro per la nomenklatura cinese è sempre il crollo dell’Unione Sovietica. E il presidente ha ammonito: «L’Urss è caduta perché non c’è stato nessuno abbastanza uomo da levarsi in piedi per difendere il partito nel momento cruciale». Xi ha fatto anche circolare una direttiva per mettere in guardia i quadri che i «valori universali non esistono», sono solo il Cavallo di Troia dell’Occidente per indebolire la Cina. La polizia ha subito risposto arrestando personalità famose del Web che sui blog «diffondevano voci su valori universali». La campagna si è intensificata con l’ordine di attenersi alla «purificazione intellettuale», secondo i Quattro principi cardine: dittatura democratica del popolo; via socialista; guida del partito secondo il marxismo-leninismo; pensiero di Mao Zedong. Dalla Cina, sotto l’attuale leadership, non c’è dunque da attendersi fughe in avanti. Il massimo che Pechino può ammettere è il «centralismo democratico»: libertà di decisione, unità d’azione.
Quest’anno però in Asia un miliardo e settecentomila persone sono andate alle urne. Dal Bangladesh alla Thailandia, all’India, all’Indonesia. Un quarto della popolazione mondiale che in pochi mesi elegge i suoi rappresentanti è sicuramente una buona cosa. Però, a ben guardare, per la democrazia parlamentare anche in questi grandi Paesi asiatici che accogliamo al vertice Asem di Milano si prospettano tempi duri. Il Bangladesh resta spaccato dallo scontro tra la premier Sheikh Hasina e la rivale Khaleda Zia che ha boicottato il voto. La Thailandia è in mano ai militari, dopo che per mesi l’opposizione aveva paralizzato il governo della signora Yingluck Shinawatra, accusandola di prendere ordini dal fratello Thaksin. Per l’opposizione non conta quante volte gli Shinawatra vincano le elezioni: questa larga minoranza non è disposta ad accettare il risultato. La contestazione ha preparato il terreno al golpe. Il fallimento della Thailandia è stato usato dalla stampa cinese come esempio del rischio destabilizzante della democrazia elettorale.
In Cambogia è primo ministro da vent’anni l’ex khmer rosso Hun Sen e le rivendicazioni dei lavoratori del tessile, sottopagati e sfruttati, sono state represse dalla polizia. In Malaysia ci sono state violenze contro la comunità cristiana; in Myanmar moti anti-musulmani. L’India ha messo in scena, come sempre, la più imponente rappresentazione di democrazia elettorale al mondo, scegliendo il nazionalista-riformista Narendra Modi come premier. Entusiasmati dal Nobel per la pace assegnato alla pachistana Malala e all’indiano Kailash Satyarthi, non ci siamo quasi accorti che la settimana scorsa i due Paesi si sono scambiati cannonate sul Kashmir, uccidendo una ventina di civili. C’è però un caso virtuoso, in un grande Paese come l’Indonesia: tramontata l’era delle dittature, nelle presidenziali è emerso un volto nuovo e riformista, Joko Widodo, che entrerà in carica lunedì prossimo. Basterà l’uomo che gli indonesiani chiamano Jokowi a salvare l’ideale di democrazia elettiva in Asia?
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MARCO GALLUZZO, CORRIERE DELLA SERA -
Gli ultimi arrivati, ieri, sono un accordo fra Cassa depositi e prestiti e China Development bank, del valore di circa 3 miliardi di euro. Uno fra Finmeccanica e il gruppo cinese Baic, per la fornitura di 50 elicotteri. Un’intesa fra Enel e Bank of China. Un progetto di collaborazione fra il Gse, il Gestore dei servizi energetici e la provincia dello Zhejiang, che coinvolge venti aziende tricolori. Un altro fra il Fondo Strategico Italiano e il suo omologo cinese, il potente Cic International: operazioni di investimento comune del valore massimo di 500 milioni di euro
Sono solo alcuni dei 20 accordi, per un valore di 8 miliardi di euro, che Italia e Cina, o le loro aziende, hanno siglato ieri, alla presenza dei rispettivi capi di governo. Un ulteriore tassello della crescita quasi a due cifre delle relazioni commerciali e soprattutto degli investimenti diretti cinesi in Italia.
Chiamarlo shopping finanziario sarebbe errato. Investimento economico di lungo periodo riduttivo. In altri Paesi sarebbe impossibile, o molto difficile, trovare un investitore estero (nel nostro caso la State Grid Corporation of China) che controlla il 35% della società che a sua volta controlla la rete elettrica e del gas (Cdp Reti).
L’Italia qualche mese fa ha detto di sì, secondo alcuni suscitando malumori americani, di sicuro aprendo le porte di asset strategici (rete energia elettrica, rete gas) all’enorme capacità monetaria della Repubblica Popolare e soprattutto al suo modo di investire: nelle prime aziende di un Paese, ma anche in società (dove Pechino nominerà propri consiglieri di amministrazione) che per core business sono pezzi «sensibili» degli interessi economici di uno Stato. La Cdp scaricherà un po’ del debito che negli anni il Tesoro le ha accollato, i cinesi avranno voce in capitolo in delicate scelte di sviluppo del nostro Paese.
«Siamo nel decimo anniversario del partenariato strategico, festeggiamo questo compleanno con un grande progetto di cooperazione», ha spiegato ieri Renzi sottolineando che l’interscambio con la Cina ha toccato nel 2013 quota 32,9 miliardi di euro e nel 2014 «l’export è cresciuto dell’8,3%».
Numeri che raccontano che mai come in questi ultimi mesi la Cina ha scoperto l’Italia. Ieri Renzi e Li Keqiang parlavano davanti ai cronisti di collaborazione sempre più stretta nel settore culturale e del cibo, «siamo due regni del buon mangiare», ha enfatizzato il premier cinese, auspicando intrecci futuri sinergici fra ravioli di Pechino e pasta tricolore.
La sensazione che offrono le cifre però è che il piatto forte, più che il cibo, o Marco Polo, sia un investimento finanziario che ha al contempo caratura geopolitica: ieri il premier cinese ha parlato apertamente di «Paesi terzi» che l’Italia e la Cina possono «esplorare» insieme. È noto che Pechino sia a caccia di approdi logistici e infrastrutture per la sua espansione commerciale nel Mediterraneo e in Nord Africa. Chi meglio del nostro Paese?
Con riserve valutarie che si misurano in trilioni di dollari di certo la Cina ha scelto di accelerare sull’Italia. La visita di Renzi a Pechino ha fatto da volano per alcune scelte. Ieri un’altra parte di quelle scelte si sono concretizzate, insieme ad alcune domande che si portano dietro.
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FABIO SCACCIAVILLANI, IL FATTO QUOTIDIANO -
Nella sua visita in Italia in occasione del vertice tra i leader europei e asiatici, il primo ministro cinese Li Keqiang difficilmente riuscirà a dissipare la sensazione di essere considerato come una specie di portafogli ambulante. Sin dai tempi di Giulio Tremonti iniziarono i viaggi della speranza in Cina degli alti papaveri ministeriali in tenuta da piazzista che peraltro riuscirono a strappare solo qualche elemosina. Oggi però la situazione è mutata. Esiste persino un sito web (www.vendereaicinesi.it ) interamente dedicato alla vendita diretta ai cinesi (inclusi gli oltre 300 mila residenti in Italia) di beni, immobili, servizi, attività commerciali, aziende e quant’altro. Tanto che Matteo Renzi ha annunciato che saranno firmati “20 accordi per 8 miliardi”.
MA SU INTERNET passano le transazioni di piccolo taglio, mentre gli arieti finanziari della Cina sono i fondi sovrani, le grandi imprese pubbliche e la banca centrale, conosciuta in occidente come la People’s Bank of China. Sono questi giganti, che gestiscono oltre 2 trilioni di dollari di riserve valutarie accumulate nei decenni dell’impetuoso miracolo economico, a solleticare le perverse fantasia finanziarie del governo italiano, i sogni proibiti di banche dal capitale esangue e le speranze di imprese in perenne crisi di liquidità. È quindi molto probabile che durante il suo incontro di oggi con LiKeqiang, Renzi si concentrerà su questi temi, evitando ogni riferimento ad Hong Kong (in perfetta sintonia con gli altri imbelli governi occidentali).
Secondo il database della Heritage Foundation che monitora le grandi acquisizioni cinesi nel mondo (quantomeno quelli di cui viene data notizia), dal 2008 – quando si è registrato il primo investimento sostanziale, 250 milioni di dollari in una società immobiliare – al 2013 la Cina ha condotto operazioni in Italia per un totale di 3,6 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra alquanto modesta se paragonata a quelle investite nello stesso arco di tempo nel Regno Unito (18 miliardi di dollari), in Australia (60 miliardi), in Nigeria (20 miliardi), in Brasile e in Canada (30 miliardi ciascuno).
Tuttavia nel 2014 è arrivata una ventata di attivismo decisamente inaspettato. A febbraio Krizia è stata acquistato da un gruppo privato di Shnzen per una cifra imprecisata. A marzo il braccio operativo della Banca centrale cinese la State Administration of Foreign Exchange (SAFE) ha acquistato il 2 per cento di Eni e il 3 di Enel per un totale di 2,7 miliardi di dollari, seguito a maggio dalla Power Construction Group che ha inglobato il 40 per cento di Ansaldo Energia per 560 milioni di dollari. Infine il filotto estivo: in pochi giorni tra fine luglio e inizio agosto, la Consob ha ricevuto comunicazioni che la People’s Bank of China aveva superato il 2 per cento del capitale di blue chip come Generali, Telecom Italia, Fiat, Prysmian, mentre il gestore della rete cinese State Gridha investito 2,1 miliardi di euro in Cdp Reti (la holding che controlla Snam e Terna, il cuore del sistema energetico italiano). Questa impennata nei flussi di capitale verso l’Italia è il sintomo di una necessità impellente. La Cina ha continuato ad ammassare riserve valutarie, investendole soprattutto nei titoli del Tesoro americano al punto tale che se volesse venderne anche solo una parte farebbe crollare il mercato. Quindi i cinesi da diverso tempo cercano di limitare l’accumulo di dollari facendo incetta di attività reali soprattutto nelle infrastrutture, nel settore energetico e nelle materie prime.
Dopo aver fatto buoni affari in paesi con immense risorse minerarie (inclusi quelli che richiedevano cospicui investimenti, come in Africa) oggi che l’economia globale arranca, si accontentano anche di occasioni meno appetibili, accettando di correre qualche rischio di medio termine pur di sbarazzarsi di titoli a reddito fisso dai rendimenti virtualmente nulli. Quindi anche in Italia, pur con tutti i suoi difetti, trovano dei pezzi (e dei prezzi) tutto sommato appetibili per un investitore sovrano dalle spalle larghe e dall’orizzonte lungo: Matteo Renzi annuncia 20 accordi per 8 miliardi di euro di valore.
SPESSO GLI INVESTIMENTI della Cina, che quest’anno secondo il Fmi è diventata la prima economia del mondo (a parità di potere d’acquisto), hanno suscitato sospetti di interferenze politiche e accuse di colonialismo. Ma in realtà di questa influenza si rilevano tracce labili ed erratiche. Per un paese come l’Italia gravato da oltre due trilioni di euro di debito pubblico e con un’economia in picchiata non saranno i pochi miliardi di investimenti cinesi a cambiare verso come propagandato dai petulanti cinguettii cibernetici.
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RITA FATIGUSO, IL SOLE 24 ORE
Otto miliardi di dollari, per il momento almeno. Perché, in futuro, potranno essere molto di più. È il valore degli accordi firmati ieri in serata, come da copione, dai premier Matteo Renzi e Li Keqiang a Palazzo Barberini dove si è riunito il direttivo del Business forum gestito, per parte italiana, da Confindustria e Ice. Il direttivo ha sottoposto una serie di accordi alla firma dei premier e dei minsitri del commercio cinese Gao Hucheng e dello Sviluppo economico, Federica Guidi.
Si è trattato di una sorta di overture di quello che potrebbe verificarsi in un prossimo futuro nei rapporti tra Italia e Cina. «È ancora impressionante lo spazio di sviluppo che possiamo avere», ha ribadito il primo ministro Matteo Renzi.
Confermati, alla fine, tutti gli accordi più importanti annunciati ieri dal Sole 24 Ore, il numero totale di quelli autorizzati anche dalla controparte cinese si è però ridotto da 20 a 14 e uno, alla fine, non è stato più siglato.
Cassa depositi e prestiti ha sottoscritto l’accordo con China development bank per investimenti su progetti di comune interesse. Il Fondo strategico italiano per la prima volta è riuscito a coinvolgere China investment corporation il fondo sovrano cinese a siglare un agreement per sviluppare la collaborazione reciproca anche su altre piazze creando un veicolo ad hoc per una serie di investimenti iniziali. Validità un triennio, ma la novità sta nel metodo utilizzato: per la prima volta China investment corporation dovrà canalizzare gli investimenti in un percorso comune deciso con un altro interlocutore.
Intanto anche Enel e Bank of China si sono impegnati ad assicurare al gruppo italiano potenziali linee di credito fino ad un miliardo di euro nei prossimi cinque anni, soggette ad una valutazione congiunta con Enel. Estremamente soddisfatta di questa nuova partnership con un istituto finanziario globale del calibro di Bank of China, Enel potrà avvalersi delle competenze finanziarie della Banca, mettendo a disposizione del nuovo partner la sua capacità di operatore internazionale integrato nel settore utility, l’accordo quindi dovrebbe portare benefici ad entrambe le parti.
Agusta Westland ha sancito una partnership con un nuovo interlocutore, Beijing general aviation, l’obiettivo è quello di ampliare l’offerta nell’ambito dell’aviazione civile.
Intesa Sanpaolo e Import-export bank of China hanno intrapreso un cammino comune, essenziale perché il gruppo italiano possa potenziare l’offerta sul mercato cinese.
Una novità nella lista sta nell’acquisizione di una quota di maggioranza di Sogeap la società di gestione dell’aeroporto di Parma e del polo logistico da parte di American Global Fund e Izp technologies.
Sul versante ambientale c’è da registrare la joint venture per la costruzione di un impianto di produzione cogenerativa di energia generata da un impianto a etanolo. Si tratta della centrale più grande mai costruita in Cina e, per l’Italia, l’iniziativa è nata dal gruppo chimico Mossi e Ghisolfi, società da poco quotata a Hong Kong, che ha stretto l’alleanza con Anhui Guozhen Group. Un segnale importante da parte di un gruppo che ha deciso di impegnarsi in Asia diversificando gli impegni.
Confermato anche il protocollo di acquisto di navi da crociera costruite da Fincantieri: Silversea Cruise Holding e Icbc financial leasing, il braccio finanziario della prima banca cinese per capitalizzazione di borsa, per lo sviluppo del settore delle imbarcazioni di lusso. Un mercato emergente che, secondo gli addetti ai lavori, potrà compensare il calo di ordini registrato sui mercati occidentali.
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MARCO FORTIS, IL SOLE 24 ORE -
La Cina è diventata in questi anni un partner commerciale molto importante per l’Italia. Nel 2013 il nostro Paese ha esportato verso Pechino beni per 9,8 miliardi di euro. E la Cina è ormai saldamente il secondo mercato dell’Italia tra i Paesi Asem extra-Ue, subito dopo la Russia. Ma se con quest’ultima l’Italia presenta un deficit bilaterale che, nonostante il nostro vivace export, è generato dall’imponente import di energia, con la Cina il deficit italiano, che nel 2013 è stato di ben 13,3 miliardi di euro, origina soprattutto da uno sbilancio nei manufatti.
Come ha sottolineato ieri nel suo editoriale il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, la Cina resta per l’Italia una specie di partner incompiuto, nei riguardi del quale il nostro export è, sì, rilevante ma può crescere ancora molto. Più sostegno all’export e alle Pmi, nonché un rafforzamento delle relazioni bilaterali ad alto livello tra i due Paesi, possono permettere all’Italia di aumentare le proprie vendite in Cina, in misura paragonabile a quanto è già avvenuto in altri importanti mercati emergenti.
Se andiamo indietro di un anno, al 2012, per il quale sono disponibili statistiche dettagliate del commercio internazionale, è possibile capire meglio comparativamente quanto sia realmente ancora inespresso il nostro rapporto commerciale con la Cina. In tale anno, infatti, secondo l’Osservatorio Gea-Fondazione Edison, l’Italia poteva vantare 448 primi, secondi o terzi posti al mondo, su complessivi 5.117 prodotti, per migliore bilancia commerciale bilaterale con la Cina. Un bel numero di primati, certo, che in totale rappresentavano un attivo bilaterale a nostro favore di 3,7 miliardi di dollari. Ma tutto sommato pochi se confrontati con i ben più significativi primati che l’Italia detiene con altri Paesi come Turchia (1.366 primi, secondi e terzi posti al mondo per saldo positivo in altrettanti prodotti), Russia (1.000 prodotti), Brasile (890 prodotti), Egitto (1.144 prodotti), Israele (1.179 prodotti), Emirati Arabi (789 prodotti), Corea del Sud (728 prodotti) e la stessa India (643 prodotti).
Sono numeri che danno una chiara idea di quanto finora il mercato cinese sia stato difficile per il nostro export: forse il più difficile di tutti, nonostante l’impegno profuso dalle aziende. Un mercato certamente ostico soprattutto per le nostre Pmi, che non solo sono state spesso svantaggiate, a causa delle loro dimensioni, dalla lontananza geografica e dalla complessità del mercato cinese, ma che vi hanno spesso trovato già ben insediati concorrenti temibili come le grandi imprese tedesche, francesi, americane ed anche le aggressive multinazionali di Paesi relativamente piccoli come la Svizzera o la Danimarca.
Se all’inizio, 10-15 anni fa, una certa somiglianza nella specializzazione produttiva tra i due Paesi (nei tradizionali beni per la persona e la casa) poteva aver svantaggiato l’Italia nella competizione diretta con la Cina sui mercati internazionali, la crescita del reddito ha poi portato milioni di cinesi nelle condizioni di comprare beni di qualità del made in Italy. Ed è cresciuta la domanda di tecnologie e macchinari italiani nelle imprese cinesi. L’Italia in parte ha approfittato di questi trend ma non ancora appieno. In più molte Pmi della meccanica e dei beni per l’edilizia e la casa hanno continuato ad incontrare difficoltà nel costruirsi in Cina solidi network di relazioni, nel reclutare personale locale fidato per funzioni chiave ma non a prezzi proibitivi, nell’inserirsi nelle gare d’appalto per le grandi opere e le costruzioni dove più radicate ed aggressive sono da anni le imprese di altri Paesi.
Dunque è positivo che tra governo italiano e cinese, tra istituzioni bancarie e finanziarie, nonché tra associazioni delle due economie si infittiscano i rapporti e gli accordi di partenariato per permettere all’interscambio italo-cinese di conseguire una maggiore fluidità, con particolare riguardo al superamento degli ostacoli sin qui incontrati dalle nostre Pmi e alla sempre difficile lotta alla contraffazione.
Mentre è di fondamentale importanza che in Italia continui lo sforzo itinerante sul territorio del viceministro per il commercio estero Calenda, fatto di incontri del ministero e dei suoi organi con gruppi di Pmi, per accrescere il numero dei nostri esportatori stabili. I primi frutti di questi sforzi già si vedono ma servirà ancora tempo. D’altro canto, non c’è alternativa, specie per ciò che riguarda le occasioni di business oltre la Grande muraglia. Solo se aumenterà il numero di Pmi italiane pronte a lavorare in Cina in modo organizzato e non improvvisato o occasionale, a dotarsi di export manager dedicati, a collaborare anche attraverso il meccanismo delle reti di impresa in iniziative produttive e commerciali, la Cina aprirà definitivamente all’Italia le porte del suo immenso potenziale di mercato e finirà di essere per noi una sorta di partner incompiuto.