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 2014  ottobre 14 Martedì calendario

Notizie tratte da: Adriano Sofri, Reagì Mauro Rostagno sorridendo, Sellerio 2014, pp. 168, 12 euro

Notizie tratte da: Adriano Sofri, Reagì Mauro Rostagno sorridendo, Sellerio 2014, pp. 168, 12 euro.

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«Mauro Rostagno fu ammazzato il 26 settembre 1988. Era nato il 6 marzo 1941, era passato da tante vite, chissà quante ne avrebbe avute ancora. Di tutti quelli che ho conosciuto, era il più pronto a prendersele tutte, le vite che abbiamo in offerta. In una era stato un leader carismatico del ’68, come si dice, ironico, geniale, seducente, spavaldo e musicale».

«Mauro era una persona molto seguita a Trapani e aveva un pregio, che siccome era molto intelligente, sapeva spiegare le cose in maniera molto facile, non era arzigogolato, era didascalico ma spiritoso. È come se Mauro fosse arrivato a Trapani avendo… come se Mauro a Trapani avesse mostrato il meglio di sé, di tutto quello che lui aveva imparato, la sua capacità di comunicare, del rapporto con la gente, di capire, di fare 2 più 2 fa 4, e forse non era neanche tanto difficile fare 2 più 2 fa 4… bisognava solo avere voglia di farlo e lui questa voglia ce l’aveva» (Elisabetta Roveri, detta Chicca, compagna di Mauro Rostagno, in una deposizione del 2011).

Il processo per la morte di Rostagno, durato tre anni e mezzo, concluso ventisei anni dopo l’omicidio, ha detto questo: è stata la mafia ad ucciderlo.

Giovedì 15 maggio 2014, la Corte d’Assise di Trapani ha condannato all’ergastolo il boss di Erice Vincenzo Virga e Vito Mazzara come mandante e esecutore dell’omicidio del giornalista e sociologo Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi di Valderice. Per la pubblica accusa «il modus operandi seguito nel delitto Rostagno è quello tipicamente mafioso» e il movente sarebbe da ricondurre «all’attività giornalistica di Rostagno, destabilizzante della quiete criminale».

«Qualcuno muore ammazzato perché si batteva per la giustizia, per il bene comune, o anche solo per la propria personale dignità. Allora delle mani scrivono sui muri che vive, che è vivo, e a volte aggiungono un punto esclamativo, per significare che è più vivo dei vivi. A Trapani c’è ancora qualche scritta slavata che dichiara MAURO È VIVO! Serve ai vivi per consolarsi, e per prendere un impegno che il tempo farà sbiadire, ma i morti ne sono inceppati, è come se non li lasci sentire pienamente morti».

«Di un’altra cosa devo avvertire: io non sono stato il miglior amico di Mauro. Amico sì, senza riserve, ma non il migliore. Oltretutto gente come noi ha avuto vite numerose e molte di loro affollate, sicché può contare su un patrimonio prezioso di amicizie pressoché incrollabili, e proprio per questo deve rinunciare al desiderio altrettanto prezioso, soprattutto nell’adolescenza e nella primissima gioventù, del “miglior amico”».

Diceva Rostagno: «Sono più trapanese di voi, perché io l’ho scelto…».

A fondare e governare la comunità socio terapeutica Saman di Trapani furono in tre: Francesco Cardella, Mauro Rostagno e Elisabetta Roveri, detta Chicca, sua compagna.

«Cardella era l’impresario, come in un circo, o in una scuderia di boxe. E aveva trovato un campione. Mauro era il campione. L’impresario investiva su di lui, disposto a truccare via via qualche incontro, per farlo vincere, ogni tanto pareggiare, alla fine perdere».

Alla Saman, appena si entra, c’è una gigantografia di Cardella in forma di Bhagwan Shree Rajneesh.

«Mauro, il cui talento saltava agli occhi e ne faceva un protagonista naturale, un leader o qualunque altra cosa notabile, aveva un’aspirazione irresistibile a non essere il primo, a non primeggiare; e tuttavia era orgoglioso e vanitoso quanto si deve, e avrebbe mal sopportato di essere terzo, o quarto o qualunque altro numero ordinale. Dunque voleva essere secondo».

«Mauro aveva imparato che essere il primo riduce drammaticamente la libertà. Chi è primo non può continuare a essere un artista, è responsabile per tutti gli altri, non può scartare da un lato. Il primo è Fidel, e vive e muore di vecchiaia, il secondo è il Che».

«Chicca Roversi non se l’era mai posto un problema simile: era scontato che fosse la terza, di gran lunga. A Cardella la gigantografia, a Mauro l’anima dell’impresa, a Chicca l’intendenza, le cucine, il governo».

Da una deposizione di Maddalena Rostagno, figlia di Mauro e di Chicca Roveri: «I ruoli sono sempre stati: Cardella era il capo, il guru… Mia mamma era la mamma, la persona che organizzava e gestiva il quotidiano e mio padre era, io in famiglia uso dire, l’anima…».

Alle due del pomeriggio le strade di Trapani si svuotavano perché la gente andava a guardare il telegiornale di Rostagno su Rtc.

Dal tg del 21 aprile 1988: «Buongiorno, mamma mia che situazione in questa provincia di Trapani! Logge massoniche coperte, intreccio tra politica, affari, mafia massoneria, tangenti, gente che si fa ricca della povertà altrui… Insomma, ci sarebbe quasi da stare seri se non avessimo voglia, ogni tanto, anche di ridere, perché una cosa, soprattutto, ci preoccupa: il volto scuro degli amministratori e dei politici in questi frangenti».

Diceva ironicamente Paolo Borsellino a Rtc: «Trapani è la provincia più lontana d’Italia da qualsiasi punto».

Nell’agosto 1988 Claudio Fava fece una lunga intervista a Rostagno per il mensile King. Cardella se n’ebbe a male perché Rostagno trascinava pericolosamente l’impresa di Saman sulla china dell’impegno anti-mafioso. In realtà più probabilmente perché Rostagno non lo aveva mai nominato nell’intervista. Fatto sta che mandò un fax alla sede della Saman in cui era scritto: «Sostanzialmente falso, ingeneroso, inopportuno. Pericoloso. Quale segno del mio disappunto ti invito a lasciare la tua stanza al Gabbiano e sistemarti in altra abitazione della comunità che Chicca ti vorrà indicare».

Pm: «Rostagno come reagì a questa decisione di Cardella?».
Chicca Roveri: «Allora Mauro reagì sorridendo, nel senso che andò serenamente ad abitare in una stanza che io gentilmente gli indicai e stette lì, cioè… mi colpì il fatto che Mauro sorrise, proprio sorrise di questa cosa…».

La volta che Rostagno chiese un’intervista a un notabile trapanese, e quello gli rispose: «Ma vai a zappare!». La puntata successiva del telegiornale di Rostagno si apriva con lui che impugnava una zappa e lavorava un campo, poi si interrompeva e diceva: «L’assessore mi ha detto di andare a zappare e l’ho voluto accontentare. Dopo averlo accontentato e zappato, voglio raccontarvi cosa avrei voluto chiedergli».

Nel 1996, il sostituto procuratore di Trapani Gianfranco Garofalo emise una serie di mandati di cattura nei confronti di alcuni ex ospiti di Saman quali autori dell’omicidio di Rostagno, e nei confronti di Monica Serra, la giovane che era in auto con Rostagno al momento dell’agguato, e di Chicca Roveri come favoreggiatrici. La tesi di Garofalo, poi dimostratasi del tutto infondata: si era trattato di questioni amorose, Chicca tradiva Mauro con un ospite della comunità; costui, tipo violento e anche armato, aveva tentato di dare fuoco alla stanza di Chicca e Mauro; tutto ciò sarebbe avvenuto alla vigilia dell’omicidio di Rostagno.

La verità sulla tesi di Garofalo: Mauro e Chicca si consideravano liberi di avere altri rapporti amorosi, senza nascondersi; capitava più a Mauro di tradire Chicca che non il contrario; il rapporto di Chicca con il giovane incriminato era stata una reazione all’avventura di Mauro con una ragazza molto più giovane; tutto questo avveniva nell’estate 1986 e non pochi giorni prima dell’omicidio. La vicenda era stata riferita da Rostagno in una lettera a Renato Curcio dell’ottobre 1986.

«Nella conferenza stampa di Garofalo ci si dava di gomito sulla mafia che era solo questione di corna, e gran risate di magistrato e giornalisti. I giornali dipinsero Chicca come la vedova nera, come Clitennestra».

Avv. Difesa: «Signora, ritenuto che [Rostagno] non veniva talvolta per ragioni di lavoro a mangiare presso la comunità, non dormivate ufficialmente anche se poi forse…»
Teste Roveri: «Ma non le permetto di dire certe cose».
Avv. Difesa: «Signora, la prego, mi lasci finire».
Roveri: «Ufficialmente cosa vuol dire?».
Avv. Difesa: «Signora, per favore mi lasci finire».
Presidente: «Avvocato…».
Roveri: «Io devo andare al registro del Comune di Valderice a scrivere con chi dormo? Mi scusi eh, ma come si permette».
Presidente: «Avvocato, se ha da contestare delle risultanze…».
Avv. Difesa: «No, no, no, Signora».
Roveri: «E che cavolo».

Monica Serra nel 1988 aveva venticinque anni e un bambino piccolo, era ospite di Saman per curare la propria dipendenza dalla droga. Rostagno la prese come collaboratrice alla sua televisione, una settimana prima dell’agguato. Il 26 settembre tornavano in comunità dopo il programma serale, Rostagno guidava, la Serra era seduta accanto. I primi proiettili di fucile (un Breda calibro 12) sfondarono il lunotto e colpirono Rostagno che ebbe il tempo di dirle di rannicchiarsi sotto il sedile, poi lui fu finito da due colpi di revolver 38. La Serra resto illesa. Da allora fu a più riprese accusata di aver mentito e di essere stata complice dell’assassinio. Monica Serra è morta il 14 settembre 2013 per un infarto o un aneurisma cerebrale.

C’è, nel curriculum dell’imputato e poi condannato Vito Mazzara, a suo tempo campione di tiro, un omicidio impressionante per esattezza ed efferatezza, che gli è costato uno degli ergastoli definitivi che stava scontando già durante il processo. La vittima fu, il 23 dicembre 1995, Giuseppe Montalto, un agente penitenziario che all’Ucciardone aveva sequestrato un bigliettino passato tra i boss detenuti. Montalto fu ucciso in auto, e restò illesa sua moglie, che gli sedeva affianco, con la figlia di 10 mesi in braccio e un’altra ancora in grembo.

Teste Calcara: «Mi piaceva cacciare, mi piaceva cacciare».
Presidente: «E aveva un fucile suo? Ha mai posseduto un fucile da caccia».
Calcara: «Sì, ma ricordo di averne avuto tanti fucili, ma non ho posseduto fucili legalmente, illegalmente eh».
Presidente: «Sì, per carità, illegalmente».
Calcara: «Io non avevo il porto d’armi. Mi scusi, non ho capito».
Presidente: «No, no, va bene, illegalmente. Comunque possedeva, ha posseduto tanti fucili, è così?».
Calcara: «Doppiette, automatici, a cinque colpi, a tre colpi, a due colpi, sovrapposti».

La Fiat Uno dell’agguato era stata rubata a Palermo con sei mesi di anticipo e tenuta di riserva. «Che si sia potuto rendere un simile dettaglio compatibile con la pista cosiddetta interna alla comunità Saman, o con quella del “delitto fra compagni”, è difficile ammettere».

Il 14 dicembre 2012 il processo riparte da zero. La Corte si sentirà dire da uno dei due carabinieri che ritrovarono la Fiat Uno usata per l’agguato: che il ritrovamento avvenne già la sera dell’omicidio e non la mattina dopo, che rinvennero l’auto ancora fumante dopo essere stata incendiata e decisero di tornarci l’indomani mattina, lasciandola incustodita, mentre polizia e carabinieri continuavano a fare posti di blocco in cerca dell’auto degli assassini.

Si scoprirà poi che un verbale di Rostagno ascoltato dai carabinieri nel febbraio 1988, dopo aver denunciato in tv i legami di logge segrete, mafia e traffico d’armi, non era nemmeno citato nel primo rapporto sull’omicidio all’autorità giudiziaria.

L’illuminazione stradale era saltata nel punto dell’agguato quella sera. Si viene poi a sapere che: l’operaio dell’Enel che riferisce sul blackout dell’Enel la sera dell’omicidio è anche l’autista di Vincenzo Virga, e viene ammazzato di lì a poco perché parla troppo; tre piastrellisti che dovrebbero lavorare nella cava dov’è stata poi bruciata la macchina dell’agguato, quel giorno avevano deciso di fare un picnic e sono andati a comprare salsicce alla macelleria del nipote di Virga.

«E anche il fucile “esploso” – non era esploso, hanno stabilito i periti – diventava il pretesto per escludere la pista mafiosa, benché incidenti analoghi non siano stati rari nei delitti di mafia. L’argomento segnala la soggezione, fra ammirata e spaventata, nei confronti della mafia: cui si farebbe torto a dubitare che non sia perfettamente efficiente nella sua potenza di fuoco, e nella sua onnipotenza. Alla mafia le armi non si inceppano, i fucili non si spezzano».

«Come chi tenga l’unghia del mignolo lunga, per mostrare di non lavorare con le mani».

La Gran Bretagna è stata all’avanguardia per la genetica forense. La prima sentenza risale al 1988, l’anno in cui fu ucciso Rostagno. Scopritore dell’unicità dell’impronta genetica e pioniere delle indagini sul Dna applicate ai crimini è Alec Jeffrey. Si era imbattuto in un frammento di Dna che si ripeteva su differenti cromosomi, programmò allora un nuovo esperimento, prelevando il Dna di un suo tecnico di laboratorio e dei suoi parenti. «Il lunedì 10 settembre 1984, alle 9 e 5 minuti di mattina, trovò uno sconcertante guazzabuglio di macchie e righe, che subito dopo gli si rivelarono per il bar code individuale, capace altresì di indicare la parentela».

L’Italia non ha una banca dati del Dna. In Gran Bretagna oltre il 10% della popolazione è registrato nella banca dati genetica, istituita nel 1995.

La Corte d’Assisi di Trapani tre anni dopo l’inizio del processo ordinò la perizia sul Dna per i reperti rimasti, ovvero il sottocanna del fucile Breda calibro 12 lasciato sul suolo dopo la rottura e altri frammenti lignei. I risultati restituirono una «molto forte» compatibilità con il Dna dell’imputato Vito Mazzara.

«Aveva detto il presidente di Corte Angelo Pellino: “Se abbiamo disposto questo accertamento, è perché i periti hanno segnalato la necessità, la opportunità, e quindi la perlomeno potenziale proficuità... Fermo restando che ci muoviamo nel campo delle valutazioni probabilistiche. Questo è l’orizzonte, diciamo, limitato, limitativo e limitante di questo approfondimento”. Quando parlava dell’orizzonte limitato, il giudice non poteva immaginare che all’esito, una volta separate le tracce dei “professionisti” che avevano maneggiato i reperti, non solo sarebbe risaltata la “molto forte” compatibilità col Dna di Vito Mazzara, ma sarebbe emerso ancora più nitidamente un profilo genetico, siglato “A 18”, corrispondente a un parente di Vito Mazzara. Era il colpo di scena: concretamente, raddoppiava la prova. Esito unico nella storia forense: mai si era separato il Dna di un imputato da quello di otto pubblici ufficiali che avevano maneggiato il reperto, mai si era trovato senza cercarlo uno stretto consanguineo dell’imputato. Anche ammesso, per assurdo, di ignorare il profilo di Mazzara rintracciato sul reperto, e di confrontare il Dna di Vito Mazzara, così come prelevato oggi, al Dna di “A 18”, la parentela è provata. Immaginate una spiegazione qualunque alla scoperta che sul fucile di un assassinio c’è l’impronta nitida di un parente stretto dell’imputato di quell’assassinio?».

L’espressione «molto forte» fa parte di una scala tecnica che contiene 5 gradi di evidenza dell’attribuzione: debole, moderata, forte, molto forte, estrema. Molto forte vuol dire che la probabilità che un profilo preso a caso nella popolazione coincida con quello rilevato dell’imputato è una su cento milioni.

«Tutto può essere detto, insinuato, gridato. Nel processo Calabresi, che mi aveva per imputato, un avvocato di Parte civile gridò che “Mauro Rostagno non è stato ucciso dalla lupara della mafia, ma di Lotta continua”. Ora, nel processo per l’assassinio di Mauro gli avvocati della difesa, pur rinviando a “poteri forti” sopra e fuori dalla mafia, tornano a insinuare la complicità della sua compagna, Chicca, e parlano di sua figlia Maddalena “impazzita dal dolore”: dove l’accento non cade sul dolore, ma sulla pazzia».

«Io non sono come la maggior parte di voi che leggete, e non siete mai stati in prigione e non sapreste nemmeno immaginare che vi succeda. Se scrivo di donne uccise, di femminicidio, come poi si è detto – ne ho scritto chissà quante volte da una ventina d’anni a questa parte – mi ricordo di aver conosciuto, di aver convissuto, con almeno una dozzina di uomini che avevano ucciso la “loro” donna, o delle prostitute, “donne di tutti”».

Il presidente della Corte è Angelo Pellino, classe ’59, tra l’altro ha giudicato a latere nei processi De Mauro e Impastato. In aula prende appunti prende appunti a penna su un grosso blocco comune, e scrive sul recto e sul verso, forse per economia.

Il sindaco di Trapani in carica Vito Damiano, ex generale dei carabinieri. «A giugno 2012, appena eletto, andò in una scuola e disse che a parlare di mafia le si dà troppa importanza e si spaventano i giovani. Bisogna parlare, disse, dei prodotti tipici locali. Qualche alunno si sarà chiesto se la mafia non fosse un prodotto tipico locale».

A Mauro Rostagno hanno intitolato la stradella in cui fu ammazzato, sulla targa sotto il nome c’è scritto «giornalista – sociologo» e sul luogo hanno eretto un obelisco di marmo bianco con su scritto in bronzo il nome e la data e, fra virgolette, «vittima di mafia» e poi sotto la sua frase «io mi sento trapanese più di voi perché ho scelto di esserlo».

C’è un’intervista che Rostagno diede a un collaboratore di Rtc, nel 1988, al ritorno da un viaggio con la figlia a Trento, dove si erano festeggiati i vent’anni dal ’68, col titolo “Bentornata Utopia” e lui aveva tenuto un discorso in cui spiegava che erano stati sconfitti, aggiungendo «per fortuna».