Pierluigi Magnaschi, ItaliaOggi 14/10/2014, 14 ottobre 2014
IL PUNTO È: PERCHÉ, AVENDO PROGETTI E SOLDI, A GENOVA NON SI È FATTO NULLA?
Se c’era un motivo valido per mandare a casa tutta la classe dirigente italiana, questo lo si è toccato con mano a Genova, in occasione dell’alluvione di quest’ultima settimana. Purtroppo, quando si parla di classe dirigente, tutti pensano ai politici. Che sono solo una parte della classe dirigente di un paese e, per quante responsabilità essi abbiano, non sono nemmeno la classe dirigente più responsabile nella disastrosa situazione del nostro paese. Parlando di classe dirigente, purtroppo, si pensa subito a quella politica perché essa è la parte più esposta e quindi anche più visibile. Essa è infatti solo la punta dell’iceberg; può, sia pure a fatica, essere, di tanto in tanto, mandata a casa, a seguito delle elezioni o di sovvertimenti all’interno dei partiti. I vertici della pubblica amministrazione, per quanto disastrati essi siano, non solo restano sempre, premiati e impuniti, al loro posto, ma anche fanno carriera senza alcuna soluzione di continuità. Nel caso della spartizione dei premi di produzione essi vengono presi dal 98% degli aventi diritto.
A un governo di centro-destra può succedere un governo di centro-sinistra ma coloro che hanno in mano le leve del potere sono sempre gli stessi, a livello centrale o periferico. È come se le elezioni non si fossero tenute. Ed è quindi come se il volere degli elettori fosse del tutto ininfluente. Il ristorante cambia l’insegna ma, siccome lo chef è inamovibile e insindacabile, la sbobba è sempre la stessa.
I politici (che, per fare questo loro mestiere, debbono essere masochisti a livello di eccellenza) prendono, come nel caso dell’alluvione a Genova, delle torte in faccia (usiamo questo termine come eufemismo). La loro prima reazione, impassibili come sono, è fare finta di non averle prese in faccia. Poi, se si accorgono che sono stati visti in queste condizioni, se la tolgono con il fazzoletto. E poi aspettano che l’onda dell’indignazione passi per potersi rimettere la camicia bianca.
La colpa dell’alluvione a Genova non è però del temporale, che non può certo essere contrastato. Ma della pubblica amministrazione che non ha saputo contenerne gli effetti devastanti. Senza voler andare indietro ai tempi del governo di Ciriaco De Mita, che quattro decenni fa definì il torrente Bisagno «un’emergenza nazionale», restiamo pure al 2.011, data in cui c’erano i soldi (in gran parte Ue, tra l’altro) ed erano pronti anche i progetti per l’intervento di regimazione delle acque. Quell’intervento che, non essendo stato fatto, ha comportato adesso l’esondazione del Bisagno e l’allagamento di Genova. Come mai questo progetto non è stato realizzato? Semplice, perché l’opera è stata appaltata ma, subito dopo, il consorzio di imprese che era uscito soccombente dall’asta, ha presentato un ricorso che, come una talpa, si è subito incuneato nei meandri della giustizia amministrativa, determinando l’immediato blocco dell’inizio dei lavori.
Ma le invettive non consentono di costruire le opere pubbliche. E sinora, in Italia, si sono sempre sprecate solo le invettive. Fino a prova contraria, la politica dovrebbe comandare sulla burocrazia. E sinora, almeno a parole, Renzi ci ha fatto capire che è anche lui di questo parere. Il modo di procedere, a partire dall’esondazione del torrente Bisagno, dovrebbe quindi essere diverso dalla solita inazione. Renzi, con il decisionismo che pare possedere, dovrebbe nominare un gruppo ristretto di ingegneri e di giuristi (più uno psicologo) che dovrebbe essere incaricato di analizzare perché un’opera pubblica progettata, finanziata e appaltata non ha preso il via.
Bisognerebbe quindi ripercorrere analiticamente tutta la procedura giuridico-amministrativa che oggi si deve fare, al fine di individuare esattamente i colli di bottiglia che hanno irragionevolmente prolungato i tempi di realizzazione dell’opera. Si deve poi definire, dopo aver individuato questi colli di bottiglia, il modo più esatto e risolutivo per farli saltare. O attraverso delle opportune e rapide modifiche di legge. O attraverso una ridefinizione dei percorsi burocratici miranti a semplificare i controlli formali che spesso sono eseguiti (e lo sanno tutti) solo per dire c’ero anch’io ed avevo, volendo, il potere di porre il veto che nuoce agli interessi della cittadinanza ma nutre l’ego del burocrate apicale, soprattutto se di poco peso.
Per quanto si riferisce ai ricorsi, che sovente sono del tutto pretestuosi, da parte dell’impresa soccombente, bisognerebbe attivare delle misure di responsabilizzazione. In assenza di questi vincoli, il ricorso può essere fatto, primo, per avere ragione ma anche, secondo, con il solo scopo di rompere le uova nel paniere dell’impresa che ha vinto l’appalto (così impara a vincere, un’altra volta). In Germania, ad esempio, in attesa della sentenza, i lavori comunque procedono. E si potrebbe prevedere, in caso di soccombenza dell’impresa ricorrente, una penale rilevante commisurata al vero e completo danno che la collettività ha subito a causa dell’incauta causa intentata.
Questa commissione però, se intende raggiungere il suo scopo, non deve essere formale ma deve essere concreta ed operativa. Non deve elaborare massimi principi (specialmente giuridici) ma deve scoprire procedure applicabili. Deve riuscire a disboscare i percorsi burocratici. Per questo motivo non può essere formata da burocrati pubblici già in carriera ma da gente di impresa che, per mestiere, sa come si gestiscono i problemi complessi. Il politico che vuole evitare altri «casi Bisagno», non può limitarsi a nominare la commissione (com’è successo in passato) ma deve seguirne i lavori passo passo e, a lavoro concluso, deve impegnarsi a trasferire, senza miglioramenti peggiorativi da parte delle alte sfere burocratiche, la trasposizione delle conclusioni in una apposita legge che abolisca tutte le precedenti leggi dello stesso tipo.
Se invece i politici abbandonano al suo destino questa commissione, la vanificazione del suo lavoro sarà certa. Il suo rapporto infatti finirà in un cassetto. Invece, nel cassetto, debbono, all’occorrenza, finire coloro che vorrebbero insabbiarlo. In caso contrario, nessuno pianga sull’alluvione del Bisagno. Sarebbero lacrime di coccodrillo. Più che inutili, vergognose.
Pierluigi Magnaschi, ItaliaOggi 14/10/2014