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 2014  ottobre 14 Martedì calendario

PROGRESSO ENORME NELLA RICERCA SULL’ALZHEIMER: ESSENDO STATO CREATO UN CERVELLO MALATO IN PROVETTA, SI POTRANNO AVERE RISPOSTE SULL’EFFICACIA DI 1.200 FARMACI NON PIÙ IN DIECI ANNI, MA IN UN MESE

Per scoprire se un farmaco può curare la demenza si impiegano in media 12 anni, almeno 10 per sperimentarlo sui malati. Otto anni per individuare sui topi la molecola più promettente. E via così, un tentativo alla volta. Da oggi non è più così. A partire da staminali di embrioni umani è stato creato un microcervello malato di Alzheimer, moltiplicato in molti esemplari, e si andrà a verificare l’azione di 1.200 farmaci già in uso e di altri 5000 che si stavano selezionando sui topi per poi avviare i più promettenti alla sperimentazione umana. Le risposte arriveranno in un mese.
«È un progresso impressionante – commenta Carlo Ferrarese, direttore del Centro di neuroscienze di Milano e della clinica neurologica dell’ospedale San Gerardo di Monza, a Cagliari per l’annuale congresso della Società Italiana di Neurologia – avere a disposizione un modello di cervello umano in vitro dove si verificano i due danni che, allo stato delle conoscenze attuali, sono la causa prima della demenza, semplifica, accelera e rende molto più economica la ricerca sui farmaci. Abbiamo da tempo sostanze che agiscono sulle placche senili, gli accumuli di proteine che progressivamente si diffondono nel cervello, e farmaci che agiscono sulla tau, la proteina che alterandosi, scombina lo «scheletro» della cellula nervosa. Somministrati ai malati — però — non hanno prodotto benefici. Rimane il dubbio che, dati ai primi segni premonitori, riescano a fermare l’accumulo di placche e la distruzione della tau. Sarebbe una sperimentazione di oltre 10 anni, con questo modello sapremo in trenta giorni se vale la pena di tentare».
Il “mini-cervello” è stato realizzato da Rudolph Tanzi e Doo Yeo Kim, neuroscienziati del Massachussets General Hospital di Boston. I due sono partiti da cellule staminali di embrioni umani. Doo Yeon Kim ha avuto l’intuizione vincente: far crescere le cellule embrionali non in liquido ma sospese in un gel, dove hanno potuto organizzarsi in una rete di neuroni tridimensionale, come nella corteccia cerebrale. Prima però, con una sofisticata operazione di ingegneria genetica, hanno impiantato alcuni dei geni alterati più presenti nei malati – non in tutti – hanno diffuso nel gel un mix di fattori di crescita cellulare scoperti sinora e hanno aspettato. In poche settimane le staminali sono diventate neuroni, connesse tra loro, e in poche altre settimane dentro i neuroni la tau ha iniziato ad aggrovigliarsi distruggendo lo «scheletro » mentre fuori crescevano le placche, depositi di un’altra proteina, la beta-amiloide, protagonista anche di altre malattie.
Intanto Tanzi ha chiarito un passaggio oscuro della malattia: si pensava che nel cervello si accumulassero molecole di beta-amiloide (non era chiaro se per produzione eccessiva o incapacità di smaltimento) che poi si organizzavano in placche che «turbavano» i neuroni finché non si autodistruggevano. Ma i farmaci che dovevano interferire con questo meccanismo non hanno dato risultati. Poi sono stati messi i geni umani di Alzheimer nei topi. Gli animali hanno mostrato presto le placche, ma i neuroni sono rimasti integri. Perché? Non era chiaro. L’eccesso di beta-amiloide non basta a metter in moto la malattia? O i topi erano troppo diversi nonostante l’impianto di geni umani? In mancanza di meglio, i topi sono stati utilizzati per selezionare molecole da avviare alla sperimentazione sui malati. Ma nessuno dei venti farmaci miracolosi nei topi ha aumentato la sopravvivenza dei malati.
D’ora in poi non si procederà più così a tentoni. Tanzi ha già scoperto che le placche fanno saltare le proteine tau dentro i neuroni avviandoli alla morte perché attivano un enzima particolare. Il che chiarisce il modo in cui si sviluppa la demenza e fornisce già un nuovo bersaglio. Un altro mistero per cui il mini-cervello sarà determinante è capire che cosa fa il gene più potente nel causare la malattia, ApoE4, che si trova in oltre la metà dei casi di Alzheimer: non è la causa della malattia, ma aumenta molto il rischio di caderci, soprattutto se il soggetto ha altri fattori di rischio.
«Anche su questi misteri attendiamo progressi più rapidi — osserva Ferrarese — sappiamo che alcune patologie aumentano il rischio, come diabete o ipertensione, ma non sappiamo come e perché. Ancora meno sappiamo degli stili di vita connessi: attività fisica, stimoli intellettuali, la ben nota dieta mediterranea abbassano il rischio. Infine, un meccanismo della malattia: nel cervello dell’Alzheimer si scatena l’infiammazione, non sappiamo perché e se svolge un ruolo negativo, ad esempio il sistema immunitario accelera l’eliminazione dei neuroni, o li difende dalla beta-amiloide. Dopo che lo avremo scoperto potremo puntare a un farmaco efficace, che contrasta o stimola il sistema immunitario».
Arnaldo D’Amico