Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 13 Lunedì calendario

ARTICOLI DEL 13/10/2014 SULL’ALLUVIONE DI GENOVA


ERIKA DELLA CASA, CORRIERE DELLA SERA -
In una città ingrigita dalla polvere alzata dal fango secco, dove stanno fianco a fianco i ragazzi con gli stivali e le signore che prendono il tè nelle pasticcerie ancora aperte, i genovesi non smettono di interrogarsi sulle responsabilità dell’alluvione di giovedì. E a tratti esplode la rabbia. Il sindaco Marco Doria nella mattinata affronta i commercianti e raccoglie gli insulti: «Pagliacci», «Dimezzatevi lo stipendio», «Dimissioni! Dimissioni!».
Fra poco arriverà il ministro dell’Ambiente Galletti, non verrà invece il premier Matteo Renzi che affida a Facebook il suo pensiero: «Se vogliamo essere seri, se vogliamo evitare le passerelle e le sfilate da campagna elettorale l’unica soluzione è spendere nei prossimi mesi i due miliardi non spesi in ritardi burocratici. Basta scaricabarile». I due miliardi si riferiscono a tutta l’Italia. E nel ringraziare gli angeli del fango Renzi assicura: «Userò la stessa determinazione per spalare via il fango della mala burocrazia, dei ritardi, dei cavilli». Ho già iniziato, dice, col decreto Sblocca Italia.
Intanto, per l’immediato il sindaco Doria chiede al governo di sospendere i pagamenti fiscali per gli alluvionati, il Comune fa la sua parte sospendendo da subito Tari, Imu e Tasi. Ma le polemiche si autorigenerano come i temporali che — secondo le previsioni — ancora minacciano Genova e la Liguria fino alla mezzanotte di oggi. Da una parte volano accuse per i premi appena dati ai dirigenti comunali per aver «mitigato i rischi del dissesto idrogeologico» (40 mila euro), dall’altra si punta il dito contro le ditte che facendo ricorso al Tar nel 2012 avrebbero bloccato i lavori sul Bisagno.
«Non è vero — dice Orlando Pascucci, titolare di una delle ditte, la Pamoter —, il mio ricorso non ha bloccato proprio niente perché il Tar non solo non ha sospeso i lavori ma ha scritto che potevano partire». Sotto la responsabilità del commissario governativo, ovviamente. «Se hanno preferito restare fermi — dice Pascucci — forse pensavano che qualche ragione io la potessi avere e rischiavano di perdere la causa». Quindi, dice l’imprenditore, «non mi sento colpevole proprio di niente, io ho difeso il mio diritto e il mio lavoro. La commissione giudicatrice della gara era incompetente, non c’era neanche un ingegnere idraulico. Per questo ora farò ricorso al Consiglio di Stato». Ma questa volta il governatore Burlando ha detto che andrà avanti con l’assegnazione dei lavori.
Mentre il capo della Protezione Civile Gabrielli dice che «migliaia di volontari premono» per aiutare Genova (ieri non sono mancati momenti di tensione tra spalatori e militari), Beppe Grillo ha annunciato il suo arrivo oggi. Ieri anche papa Francesco ha invitato a pregare per la città.

***
FRANCESCO CEVASCO, CORRIERE DELLA SERA -
E pensare che li chiamavamo «pisciueli». Per dire che in quei torrenti un po’ d’acqua c’era, ma poca. Adesso e da quasi mezzo secolo quei nomi fanno paura: Bisagno, Fereggiano, Scrivia.
Si sono risvegliati l’altro giorno con tutta la cattiveria di cui a volte sono capaci. I venti di tramontana e di scirocco si sono azzuffati sopra di loro. E, come capita quando il respiro freddo della ripida collina e l’alito caldo del mare si scontrano, l’acqua dei placidi torrenti diventa furia devastante. Come quella che descriveva Fabrizio De André nella sua canzone triste come una poesia «Dolcenera»: «Non è l’acqua di un colpo di pioggia ma un gran casino, un gran casino». Era l’acqua dell’alluvione del 7 ottobre 1970. Che è tornata il 4 novembre del 2011. Che è ritornata il 9 ottobre del 2014. Un’acqua «nera che picchia forte, che butta giù le porte; acqua che spacca il monte, che affonda terra e ponte». È la faccia schizofrenica del solito placido Bisagno che rotola verso il mare a cinque metri cubi al secondo, dove i bambini in villeggiatura e i figli dei contadini infilavano le mani sotto i sassi sperando che fossero tane per arpionare un pesce, e se eri fortunato forse addirittura una trota.
Ora il Bisagno fa paura. La sua vita è lunga appena trenta chilometri (dal passo della Scoffera alla Foce — appunto — di Genova). In epoca romana il suo letto era molto più ospitale: quattro volte più largo e profondo tanto che per secoli ci si è potuto trasportare il legno di castagno che serviva per costruire le navi.
E lo Scrivia, che ha devastato il paese di Montoggio, non era il posto dove, quando c’erano e quando si potevano pescare, si andava per trote, cavedani, ghizzi e barbi? E sulle rive del Fereggiano non si portavano le olive al frantoio?
Tre giorni fa il torrente ha portato distruzione, tre anni fa l’acqua nera della morte. Vento che porta acqua, acqua che porta morte, ma anche — come ha scritto Antonio Tabucchi in «Il filo dell’orizzonte» — i palazzi e i palazzoni della cementificazione delle colline così che «a volte la collina smotta come se volesse scrollarsi di dosso quelle brutte incrostazioni. E poi vi sono strade da fare, tubature da allacciare...».
Venti che senti addosso, sulla e nella pelle, venti che portano tanti sentimenti, anche la paura, come quelli che sa descrivere Maurizio Maggiani in «La Regina disadorna»: dall’aggressivo maestrale alla disarmante macaia.
Ora anche gli altri torrentelli che circondano Genova hanno un’aria minacciosa: il Rio Monte di Pino, il Molinetto, il Finocchiara. Anche loro hanno scaricato dalla collina la loro acqua che sa di terra e di marcio. E anche quell’odore di gas che si appiccica dappertutto continua a far paura. E che malinconia leggere le scritte che annunciano: la programmata campagna che doveva svolgersi in piazza De Ferrari è stata annullata. Il titolo della campagna era: «Io non rischio l’alluvione».

***
MARCO IMARISIO, CORRIERE DELLA SERA -
La sceneggiatura prevedeva luci possibilmente basse e un sindaco amareggiato e ferito nell’orgoglio dalla contestazione dei suoi cittadini. «Sono uscito di casa sapendo bene cosa sarebbe successo. Era pressoché certo. Ci sono andato comunque perché era giusto farlo. Dovevo essere sul posto. Certo, non è gratificante essere individuato come responsabile di un sistema che non funziona. Ma un amministratore non può nascondersi solo perché teme di essere insultato».
Vattene, dimezzati lo stipendio, mettiti anche tu a spalare, e molti epiteti non trascrivibili. La previsione di Marco Doria sulle due ore di passeggiata domenicale con vista su negozi allagati, palazzi pericolanti e auto sepolte dal fango si è rivelata corretta. «Almeno quella». Il taccuino era pronto ad accogliere uno sfogo sull’ormai insostenibile pesantezza dell’essere sindaco. Ma l’ultima intervista della giornata ha un andamento diverso. E non solo a causa dell’illuminazione al neon nella sala al decimo piano del cosiddetto «Matitone», il palazzo che ospita la centrale operativa di Comune e Protezione civile. «Ci stava. In qualche modo è anche giusto così, perché rappresento le istituzioni, che quasi mai si dimostrano all’altezza del compito a loro assegnato. Dire che siamo vicini alla gente non basta. È difficile essere davvero vicini alle persone quando le risposte che puoi dare alle loro esigenze sono sempre e solo parziali. A volte mi chiedo che senso abbia un ruolo come questo quando gli strumenti a disposizione sono così inadeguati».
Marco Doria è in buona sostanza un comunista degli anni 50-60. «Faccio outing: alle ultime elezioni ho votato Sel, che ancora esisteva». Essendo anche uno storico, nonché stanco di sentirsi ripetere che è un uomo del Novecento, non vive nel rimpianto dei bei tempi andati. La sua impronta così antica lo rende un esemplare unico nella politica italiana, capace di generare discreti paradossi. L’aristocratico professore universitario che vanta tra gli antenati un paio di fondatori della Repubblica marinara non guarda la televisione ma funziona in televisione, al punto da tenere testa a Daniela Santanchè, che sugli studi di Mediaset e Rai a momenti ci paga l’Imu. «Chi me lo fa fare? Mi chiedo spesso a cosa serve un impegno personale e diretto come il mio. So bene che prendere la vanga e mettermi a spalare, come mi chiedevano alcuni ieri, sarebbe molto più facile. Ma il mio ruolo non è questo. Se lo facessi sarei un demagogo. I cittadini hanno ogni diritto a urlare contro questo sistema. Io non posso farlo, perché rappresento le istituzioni. Anche quando non funzionano. È troppo facile stare fuori e dentro al tempo stesso».
Nonostante la rabbia, Genova sembra rassegnata al suo destino, al suo declino. A ogni disastro spunta qualcuno con la sua tesi, con l’acqua al suo mulino. Poi tutto ricomincia come prima. «C’è una retorica ambientalista dell’emergenza che detesto. Quando sento dire che basterebbe tenere i rivi puliti per evitare tragedie, mi viene voglia di urlare. Il Bisagno porta mille metri cubi di acqua al secondo. E li vogliamo fermare togliendo gli arbusti? Queste sono balle. La verità è che servono grandi opere di ingegneria idraulica. Costano centinaia di milioni, ma sono soldi necessari a salvare delle vite umane. Lo Stato deve trovarli».
Gli occhi cerchiati di rosso e la barba di tre giorni sono il corredo minimo richiesto a un sindaco che ha ancora la città invasa dal fango e un’allerta da codice rosso sulle precipitazioni di questa mattina. Doria viene spesso accusato di eccessiva rigidità, nella gestione della cosa pubblica e nei comportamenti. Ieri una signora gli ha detto che se ci tenesse davvero alla città dovrebbe incatenarsi davanti «ai palazzi del potere». Ha toccato un tasto dolente, l’impossibilità del gesto liberatorio. «Aveva ragione lei. Forse dovrei farlo. Mi chiedo spesso come fare a scuotere questo sistema. Se le mie dimissioni servissero a cambiare una situazione insostenibile, le avrei già date. L’alternativa è tra l’uscita di scena e la testimonianza. Io cerco di dare voce alla protesta senza urlare. Certe iniziative rendono molto in popolarità, ma spesso confinano con la cialtroneria. Credo che nell’Italia di oggi ci sia bisogno di serietà. Non credo renda molto, ma è necessaria».
A fargli male non sono gli insulti ma un pronome personale. Quel «voi» indistinto che sempre accompagna la ricerca di un capro espiatorio è quasi insopportabile per un uomo che viene considerato una specie di marziano dai suoi stessi alleati, a cominciare dal Partito democratico. «Ma chi è “voi”? Io rivendico il diritto a essere giudicato per quello che faccio. Posso anche avere dubbi sull’utilità di un sindaco di questi tempi. La nostra carica è depotenziata dall’assenza di ogni risorsa. A volte ci si sente impotenti, e in questi giorni mi è accaduto spesso. Prendo atto di essere incapace di modificare da solo certe situazioni. Ieri mattina ho fatto da parafulmine per conto dello Stato. Ma il ruolo di un sindaco non può e non deve ridursi a questo».
Marco Imarisio

*****
FABRIZIO RONCONE, CORRIERE DELLA SERA
Sono ore di nuovo dolore, per la città di Genova. Quella tempesta di pioggia non annunciata che diventa fango e sommerge strade e automobili, piazze e negozi. Frazioni isolate, case evacuate, oltre 100 sfollati. Sappiamo, abbiamo visto tutto. E sapevano e avevano visto tutto anche due dei più importanti politici italiani che lì, a Genova, sono nati: Roberta Pinotti, ministro della Difesa, e Beppe Grillo, il gran capo del M5S. La Pinotti era addirittura nella Prefettura del capoluogo, dove venivano coordinati i soccorsi. Grillo era invece a Roma, tra i gazebo della kermesse organizzata dal suo movimento. E a Roma, Grillo, è rimasto. Invece di salire sul primo aereo e precipitarsi nella città dove è cresciuto, sale su una gru per un colpetto di teatro, per un comizietto nel cielo del Circo Massimo al tramonto. Mentre centinaia di volontari cercano con le pale e a mani nude di liberare la sua città dalla melma, tra grida di evviva e il gran divertimento dei militanti Grillo è sul palco a far baldoria con Edoardo Bennato, un giro di blues urlando che per fermare Matteo Renzi servirebbe l’esercito. Quando domani Grillo sbarcherà a Genova, in rituale passerella con i suoi parlamentari, s’accorgerà che l’esercito forse è più utile alla foce del Bisagno: non casualmente, il ministro competente, la Pinotti, appunto, ne aveva promesso subito l’intervento. La situazione, del resto, è davvero grave. Per questo sorprende che poi la Pinotti, nella bolgia della prefettura, mentre il capo della Protezione civile Franco Gabrielli denunciava l’impotenza, totale, dello Stato, abbia trovato il tempo per rilasciare un’intervista al quotidiano Libero in cui, su ventotto domande, due sole sono quelle dedicate al disastro. Vari gli altri argomenti toccati. Tra i quali: l’esperienza da boyscout, la prima cotta d’amore, la necessità che, dopo Giorgio Napolitano, sia una donna a diventare presidente della Repubblica (ma lei, assicura, non ci spera proprio).

*****

L’ONDA DI PIENA CHE TRAVOLGE UNA CLASSE POLITICA SENZA CORAGGIO - GAD LERNER, LA REPUBBLICA
Un sindaco via l’altro, a male parole. Genova li spazza via dal suo cuore incollerito come detriti alluvionali. Nel fango, della classe dirigente galleggia solo chi ha più pelo sullo stomaco. E dunque ha l’astuzia di non farsi vedere lì in mezzo ai negozianti dell’ultimo quadrilatero commerciale sopravvissuto nel centro cittadino, sempre gli stessi, ancora una volta a spalare e buttar via merce. A loro si chiede il coraggio di ricominciare, di vincere lo scoramento, l’adesso basta. Ma chi ce l’ha ancora, il coraggio di guardarli in faccia?
Il sindaco Doria si è presentato fra i suoi concittadini alluvionati ieri, in netto ritardo. Beppe Grillo, opportunamente, ha rinviato a martedì, sempre che la pioggia e il Bisagno diano requie. Perfino i propositi insurrezionali lanciati in piazza Corvetto l’anno scorso, durante le cinque giornate di sciopero a oltranza degli autoferrotranvieri, e poi a piazza della Vittoria coi Forconi, si smorzano nell’impotenza conclamata di una classe dirigente che annaspa tutta quanta, mentre Genova resta in balia delle acque che scorrono nel suo sottosuolo.
Il premier Renzi se la cava scrivendo su Facebook che le passerelle in questi casi non servono. Il governatore Burlando, commissario dei lavori di copertura del Bisagno e dello scolmatore del rio Fereggiano rimasto sulla carta, preferisce andare in visita nei paesi sinistrati dell’entroterra. Già l’anno scorso la rivolta degli autoferrotranvieri che paralizzò Genova suggerì prudentemente a Renzi e Burlando di annullare un incontro congiunto organizzato in vista delle primarie Pd. Genova è città soggetta a moti d’ira, funesti come i cataclismi naturali che la violentano con prevedibile sistematicità. Basta che piova forte, succede tutti gli anni. Si sapeva che sarebbe successo ancora. E intanto?
Qui si percepisce il vuoto della politica. O meglio la paura di osare una forzatura che avrebbe potuto in seguito costringere le amministrazioni locali al pagamento di risarcimenti salati, nel caso avesse dato il via libera a opere su cui pendevano ricorsi al Tar. Per questo i 35 milioni già stanziati sono rimasti nel cassetto. Un caos tale che a settembre il sindaco stesso è andato in confusione: ha protestato contro gli inaccettabili ritardi provocati dalla magistratura, ignorando che due mesi prima il Tar del Lazio aveva revocato il blocco da lui denunciato. Anche se, bisogna precisarlo, l’alluvione non si sarebbe evitata comunque. Perché il tempo necessario a prevenire la nuova sciagura, uguale identica a quella del 4 novembre 2011 e delle tante altre precedenti, era già stato sprecato. La psicosi del ricorso ha prevalso sull’urgenza di impedire nuove catastrofi.
Sono centomila i genovesi che vivono nel rischio permanente di alluvione. Le stesse opere approvate per rimediare il dissesto di una cementificazione scellerata, sono antidoti parziali che non garantiscono una città che necessiterebbe di interventi radicali. I funzionari dell’Arpal, l’agenzia regionale dell’ambiente che non ha dato l’allarme, lavorano con tecnologie inadeguate. Nessuna task force per l’emergenza era stata predisposta. La retorica encomiastica sugli angeli del fango, i ragazzi senza vanghe e senza stivali accorsi in sostegno ai sinistrati, stride con la realtà di una pubblica amministrazione impreparata a coordinarli.
Così, nel disastro strutturale divenuto cronico, sprofonda anche il senso dello Stato, la fiducia nelle istituzioni. E un uomo perbene come il sindaco Marco Doria, riluttante al protagonismo mediati- co, diviene suo malgrado emblema di una debolezza inquietante.
«Fossi stato il sindaco mi sarei incatenato a Roma finché non si fossero decisi a dare il via libera ai lavori», è la frase più gentile che gli ha gridato un ragazzo durante il sopralluogo di ieri. Lui incassa impietrito, gli chiedono di essere quello che non è e non sarà mai. Lo insultano. Che si dimezzi lo stipendio di cinquemila euro per dodici mensilità. Che prenda la vanga e si metta a pulire i tombini, visto che prima non ha fatto nulla.
Altro che Sbloccaitalia, e magari si potessero addossare alla non meglio precisata burocrazia tutte le colpe, come ha scritto ieri Renzi sparando la cifra stratosferica di due miliardi (certo non tutti per Genova). Intanto il sindaco ha fatto il minimo che poteva fare per alleviare la caduta in disgrazia economica dei cittadini alluvionati: ha sospeso il pagamento delle tasse municipali. Ma è su quello che Doria e Burlando non hanno fatto prima, che restano aperti gli interrogativi.
Ricordo il fastidio con cui il sindaco-professore, sollecitato a guidare una rivolta contro il patto di stabilità che rischiava di mandare in tilt i servizi pubblici, denunciava l’anno scorso la degenerazione personalistica della politica. Uomo di sinistra affezionato alle regole della rappresentanza democratica, trascinato dalla generosità di don Andrea Gallo a riempire il vuoto provocato dalle divisioni interne del Pd, Doria si negava a chi gli chiedeva prestazioni muscolari da Mission Impossible. Può anche darsi che avesse ragione, lo si è visto in primavera quando l’establishment cittadino si afflosciava miseramente a seguito dello scandalo Carige in cui il banchiere Berneschi si è portato dietro buona parte della Genova che conta.
Ma è nel rapporto con una natura maligna e con una città perennemente in pericolo che la fragilità di Doria si ritrova messa a nudo. Cosa deve fare un sindaco quando sa che alle prime piogge torrenziali sarà di nuovo alluvione? Va bene dire no alla sceneggiata di incatenarsi a Roma, ma è mai possibile che l’alternativa sia un’inazione rassegnata?
Così si è prodotto uno squarcio doloroso nel cuore stesso di Genova. Dai banchi del pesce e della frutta del Mercato Orientale ai piccoli esercizi commerciali di Borgo Incrociati, giù verso il mare fino alla Foce e a Piazzale Kennedy, senza risparmiare via XX settembre. Stavolta i danni sono stati maggiori di tre anni fa, anche se il morto è uno solo anziché sei. Negli stessi negozi in cui nel 2011 il fango si era fermato a mezzo metro d’altezza, in questi giorni è tre volte tanto. L’Arpal non lo aveva previsto, il sindaco è andato alla prima del teatro Carlo Felice. Ma la pioggia cadeva torrenziale e i torrenti ribollivano anche in assenza di segnalazioni formali. L’hanno avuta vinta il fatalismo e la rassegnazione.
Nei giorni dell’alluvione Beppe Grillo aveva convocato a Roma il raduno del Circo Massimo e non se l’è sentita di rientrare precipitosamente a Genova. Chissà, forse neanche lui è più il Grillo di una volta. Prudente è anche la sua decisione di rinviare a domani una protesta — con richiesta di dimissioni di Doria — che deve anch’essa subordinarsi alle previsioni meteorologiche avverse. Temo però che ci sia dell’altro: anche il capopopolo del “tutti a casa”, il leader dell’antipolitica, perfino Beppe Grillo forse avverte che questo fango sta trascinando con sé ogni speranza.

*****
ELOISIA MORETTI CLEMENTI, IL MESSAGGERO -
I lavori per la costruzione dello scolmatore sul torrente Fereggiano e del terzo lotto della copertura del Bisagno sono incagliati da tre anni, eppure i dirigenti del Comune di Genova hanno ricevuto premi di risultato e persino una medaglia dalla presidenza della Repubblica per l’impegno nella prevenzione del rischio idrogeologico. Bonus ed emolumenti anche sostanziosi, pari al 10-15 per cento della retribuzione complessiva, previsti dal programma esecutivo di gestione che, ogni anno, fissa gli obiettivi per i dirigenti comunali. Laura Petacchi, dirigente dell’Area tecnica, ha ricevuto una retribuzione di risultato di 17.614 euro lordi per il suo impegno nel «monitoraggio dei cantieri» e nel «coordinamento dei processi connessi all’attuazione di opere infrastrutturali strategiche» e alla «messa in sicurezza del territorio».
GLI STIPENDI
Un premio che, all’indomani di un’alluvione che ha causato una vittima e danni stimati in 300 milioni tra pubblico e privato, suona come una beffa. Eppure non è un caso isolato: sono quattro i dirigenti di Palazzo Tursi che hanno ricevuto complessivamente oltre 40mila euro approvati nel bilancio 2013. Tra questi c’è anche Stefano Pinasco, imputato insieme ad altri funzionari nel processo per un’altra alluvione, quella che colpì il ponente genovese nel 2010. Oggi Pinasco si occupa di manutenzione delle infrastrutture e del verde, con competenze specifiche sullo scolmatore del Bisagno. Il suo stipendio annuo è di 109 mila euro, ingrossato di oltre novemila euro di bonus grazie ai presunti risultati ottenuti. Lo stesso vale per Enrico Vincenzi, dirigente nel settore delle opere idrauliche, che ha beneficiato di un premio di 6 mila euro, nonostante tra i suoi compiti ci fosse quel «monitoraggio del territorio» che non è bastato né a prevenire né a contenere gli effetti dell’alluvione. Infine, la dirigente più nota ai cittadini genovesi, in questi giorni presenza fissa nel centro operativo del Comune, all’interno del grattacielo chiamato “Matitone” da dove è stata coordinata l’emergenza: si chiama Monica Bocchiardo ed è dirigente del settore servizi territoriali della Protezione Civile. «Mitigazione del rischio per gli edifici ubicati nelle aree di maggior rischio idrogeologico. Sviluppo e promozione della conoscenza delle attività di Protezione civile»: questi i suoi obiettivi secondo il programma esecutivo di gestione. Risultati raggiunti, a quanto pare: la sua retribuzione di risultato è stata infatti di 7.171,74 (lordo annuo 93.886,75).
LE PROTESTE
Un’indecenza, per molti genovesi alluvionati e anche per l’opposizione in Consiglio comunale. Ieri il consigliere Enrico Musso, ex candidato sindaco sconfitto al ballottaggio da Marco Doria, ha pubblicato i dati sulla sua pagina Facebook, che è stata presa d’assalto da commentatori infuriati contro l’amministrazione. «Non provo nessun imbarazzo – ha replicato a Sky Tg24 la diretta interessata – Sono stata premiata per l’attività di informazione e di diffusione di una cultura di protezione civile nelle scuole, come prevedevano gli obiettivi». La dirigente rivendica il lavoro svolto: «Io non posso conseguire un premio per fermare l’acqua con le mani. Abbiamo mitigato il rischio, lavorando insieme alle altre istituzioni, per raggiungere una maggiore sicurezza degli abitanti – ha aggiunto Monica Bocchiardo – Io devo salvare vite umane, purtroppo una è mancata ma, grazie al sistema che abbiamo messo in piedi, sono sicura che le famiglie possono stare più tranquille quando i bambini sono a scuola».
Eloisa Moretti Clementi

*****

LODOVICO POLETTO, LA STAMPA (ARTICOLO IMPORTANTISSIMO!!!) -
Scusi, signor Pascucci, ma lei si sente un po’ responsabile per questa ennesima alluvione a Genova? «Io non mi sento proprio responsabile di un bel nulla». Ma tutti dicono che sarebbe stato lei a bloccare i lavori del secondo lotto al Bisagno con i suoi ricorsi al Tar, la carta bollata e tutto il resto. «E che c’entro io con l’alluvione? Ho esercitato un mio diritto, e basta. Se non hanno fatto partire i lavori non è colpa mia. E tantomeno lo è ciò che è accaduto l’altra notte. E se sento qualcuno che lo dice...».
Eccolo qui Orlando Pascucci, padre e padrone della Pamoter, l’uomo che una parte di Genova indica come colui che ha stoppato le opere di allargamento del Bisagno «tombato» da Brignole in giù. Sessantotto anni a novembre, marchigiano d’origine, una vita a pestare terra nei cantieri della Ligura, a dirigere 120 tra operai e geometri, a tirare le fila di appalti sempre più o meno grossi, sempre importanti, spesso tra le polemiche. L’altro ieri il presidente della Regione, Claudio Burlando, aveva detto : «Noi avevano pronti i soldi per le opere. Trenta milioni dallo Stato e cinque dalla Regione. Ma poi ci sono state polemiche, ricorsi e controricorsi al Tar e al Consiglio di Stato e tutto si è fermato». E Pascucci è finito nel mirino. Ancora lui.
Saltano fuori vecchie storie che avevano riempito le pagine dei giornali anni fa. I costi dei lavori lievitati per il primo lotto di interventi sul fiume, le polemiche per un capitolato da alcuni giudicato «anomalo» e via discorrendo. Ma andare a ricordare queste cose all’imprenditore che ha fatto, con molti altri, la storia dell’edilizia genovese vuol dire infilarsi in una polemica senza fine. Che lo fa infervorare e difendersi con rabbia, quasi. Roba tipo: «Io ho sempre fatto tutto alla luce del sole. Mi dissero che avevo dato dieci telefoni ai funzionari del Provveditorato alle Opere pubbliche della Liguria per chissà quali interessi personali. E che gli avevo dato anche le auto. Sì, l’ho fatto. E che c’è di male? Era nel capitolato. Approvato anche dal ministero. Un atto ufficiale, non una roba nascosta o illegale. Io non ho proprio nulla da nascondere. Chiaro?». Chiarissimo. Ma vallo a spiegare agli abitanti di Borgo incrociati - oppure a quelli Staglieno - che ancora oggi hanno il fango alle ginocchia. Per la gente di qui, giustamente, l’unica cosa che conta è che se i lavori fossero stati fatti non ci sarebbe stato il morto. E tanti altri non si ritroverebbero rovinati o senza casa. Perché, per dirla con le parole di Marco Gemelli, uno che ha, anzi, aveva un negozio di alimentari dalle parti di Staglieno: «Per dei giochetti di potere o di interesse economico, hanno dimenticato la gente».
Lui, Pascucci, invece, tira dritto per la sua strada, o meglio non sposta di un centimetro le sue opinioni. «Quando nel 2011 ci fu l’alluvione e noi stavamo finendo il primo lotto, avevamo proposto di farci continuare alle stesse condizioni economiche di prima. Erano interventi da fare. Ma non hanno voluto, hanno fatto un appalto ed è inevitabile che ci siano stati dei problemi. Ognuno difende il suo lavoro. E quello ho fatto io. E come me hanno fatto altri sei imprenditori. Gli esclusi per intenderci». E ancora: «Se non volevano ricorsi avevano soltanto ad assegnare i lavori con altre formule. Si poteva fare. E basta dire che Pascucci ha fatto tutto. Neanche fossi io il male di Genova».
Ora l’ultima sentenza del Tar del Lazio - è del 3 ottobre scorso, sei giorni prima della bomba d’acqua che si è abbattuta sulla città - non ha risolto assolutamente nulla. E tutto è ancora in forse. E il cantiere non è mai partito.
A rileggere adesso le carte dell’appalto c’è da perdersi nella girandola di date, sentenze, sospensive mai concesse senza che un camion o un operaio che sia uno entrasse nel tunnel. Claudio Burlando, da luglio Commissario di governo per i lavori sul Bisagno, dice «Sì, bisognava partire prima. Ma sa di chi è la colpa? Della lentezza della giustizia amministrativa. Quando di mezzo ci sono lavori che possono salvare la vita delle persone, bisognerebbe poter scegliere se tutelare prima i diritti delle imprese oppure la gente. Io non ho dubbi, sceglierei le persone». E allora perché non si è fatto nulla? «Perché se assegni l’intervento e poi il ricorrente vince in un grado di giustizia superiore devi pagare i danni». Insomma, è il classico cane che si morde la coda. Questa è davvero una storia paradigmatica, come insiste Burlando, della lentezza di questa giustizia: trenta mesi per risolvere una diatriba tra imprese.