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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

VITTORIO POZZO. AGLI ORDINI DEL TENENTE I CALCIATORI ERANO SOLDATI

La partita era una battaglia, i giocatori erano soldati, l’area di rigore diventava una trincea e lì dentro nessun avversario doveva passare. Il calcio di Vittorio Pozzo, ridotto all’osso, altro non era che una guerra in miniatura, nella quale lui riviveva l’esperienza da tenente degli alpini nella Prima Guerra Mondiale, lassù sul Carso o a difendere la linea del Piave, con i nemici che arrivano da tutte le parti e tu devi in qualche modo portare a casa la pelle. La tattica, quella non esisteva: contavano il coraggio, lo spirito di sacrificio, l’umiltà. E con questi princìpi il tenente Vittorio Pozzo portò l’Italia del pallone per due volte sul tetto del mondo (1934 e 1938) e, nel mezzo, le regalò un oro olimpico (1936). Nessuno è mai riuscito a fare meglio, e probabilmente nessuno ci riuscirà. Il suo curriculum luccica: 97 partite, 65 vittorie, 17 pareggi, 15 sconfitte. Con la percentuale di successi del 67,01 si accomoda sul trono: re indiscusso dei commissari tecnici azzurri.

Il metodo Carattere spigoloso, duro, tenace e poco incline al compromesso, Pozzo si trovò a lavorare in un ambiente dove prendere decisioni in prima persona era praticamente impossibile. Tutti volevano mettere il becco nelle convocazioni, dirigenti, industriali, giornalisti, tutti volevano dire la loro e si finiva con il compilare la lista al termine di lunghissime riunioni dalle quali non usciva una squadra, ma un’accozzaglia di nomi. Pozzo, sostenuto dal gerarca Leandro Arpinati che in qualità di presidente della Federcalcio lo aveva nominato commissario unico, riuscì a imporsi e a liberarsi di tutti i «ficcanaso». Soprattutto i giornalisti non furono teneri con lui, ma il tenente degli alpini non se ne curò. Chi lo voleva denigrare sosteneva che fosse cocciuto, però a volte la cocciutaggine è un pregio. Ad esempio, Pozzo fu sempre un sostenitore del metodo, un modulo di gioco che si era sviluppato nell’Europa Centrale e in Sudamerica e che si contrapponeva al «sistema» inglese. La teoria calcistica di Pozzo era semplice: «Una condotta pratica di gioco, basata tutta sulla conoscenza dell’avversario». Da qui l’atteggiamento degli azzurri in campo: difesa e contropiede. Nello specifico: davanti al portiere due difensori abbastanza «stretti», due mediani larghi e un centromediano che rappresentava l’elemento di equilibrio di tutta la squadra, due interni di centrocampo e tre attaccanti. Impossibile convincere Pozzo che si potesse tentare una strada diversa. Lui aveva studiato a fondo il calcio inglese, quello danubiano e quello sudamericano, e aveva deciso che il metodo (sintetizzabile in un 2-3-2-3 o WW) era l’abito perfetto per i calciatori italiani, non eccelsi fisicamente però abili negli spazi stretti e, soprattutto, furbi a sfruttare le debolezze degli avversari.

Rapporti Per capire il Pozzo allenatore valgono le parole che il c.t. scrisse sul suo taccuino: «Lavorare in modo chiaro, lineare, schietto, in tono e sostanza tale da dare al giocatore la sicurezza assoluta dell’onestà e della dirittura di condotta nei suoi riguardi. Dividere col giocatore lavoro, fatica e sacrificio. Comandare con l’esempio. Non abbandonarlo mai. Essere con lui cordiale e gioviale anche, pur mantenendo, in modo che esista senza che quasi la si senta, la distanza che sempre deve intercorrere tra superiore e inferiore». Ecco il tenente Pozzo, quando parla del rapporto tra «superiore» e «inferiore». Antonio Ghirelli commentò: «Sembra di leggere il manuale dell’allievo ufficiale». Per Pozzo non c’erano uomini o calciatori, ma soltanto soldati.

Psicologia Fu il primo allenatore a organizzare i ritiri pre-partita, e non erano momenti di svago per i giocatori. Pretendeva la massima disciplina, non ammetteva il contraddittorio, sapeva essere anche duro fino a escludere un calciatore di talento che non si sottometteva alle regole. Il regime fascista sfruttò questo suo carattere inflessibile e ne fece un’icona del periodo, ma in realtà Pozzo era un figlio del Piave e non della Marcia su Roma. Scrisse Giorgio Bocca: «Il commissario unico era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti». Girava una leggenda che Pozzo smentì. Si diceva che facesse intonare ai suoi giocatori le canzoni di guerra e che raccontasse loro le imprese di quando era alpino. Se anche lo avesse fatto, era per caricarli. Per lui l’aspetto psicologico, in un ambiente dove nessuno pensava alla testa e tutti guardavano soltanto i muscoli, era determinante. Prima del Mondiale 1934 organizzò un ritiro di quarantacinque giorni tra Cuneo, il Lago Maggiore e Firenze. Lo stesso fece alla vigilia del Mondiale 1938. Silvio Piola, dopo aver alzato la Coppa Rimet a Parigi, dichiarò: «Eravamo reduci da due mesi di strettissimo ritiro. Donne niente. E in campo vedevamo non uno, ma due palloni!». Fu Meazza a farsi portavoce della squadra. Andò da Pozzo e gli chiese mezza giornata di riposo: concessa. I giocatori si divertirono fuori dal campo e, quando vi rientrarono, stesero tutti gli avversari. Il tenente venne portato in trionfo: il suo metodo era il migliore.