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 2014  ottobre 10 Venerdì calendario

QUANDO ALL’OPERA SI FACEVA A BOTTE TRA CANTANTI

Milano. Allora sì che si fischiava davvero, la vox populi tuonava dal loggione come la voce dell’eterna giustizia e non capitava come recentemente alla Scala, che un sovrintendente cercasse di conquistarsi il silenzio del loggione o che un tenore rifiutasse di tornare nel più importante teatro lirico del mondo, per timore dei fischi: ogni sera di quegli ultimi vent’anni dell’Ottocento, nei teatri d’opera, e solo a Milano erano molti, era una guerra tra claque e controclaque, tra esperti di gorgheggi e «impiegati ferroviari» appassionati delle bellone da palcoscenico «mentre quelle locomotive umane intronavano le orecchie, due signori di parere contrario venivano quasi ai bastoni». Contro certe debuttanti bellissime, ma miagolanti, il pubblico «fischiava secondo il suo pieno diritto», e anche l’orchestra «rideva sotto i baffi».
Questi tumulti tra melomani e venduti (allora l’opera era molto popolare), li racconta Arturo Colautti nel romanzo Primadonna, scritto attorno al 1884, rimaneggiato negli anni seguenti, pubblicato postumo nel 1921, e adesso, quasi un secolo dopo, riscoperto e ripubblicato a cura di Paolo Patrizi. Giornalista politico (collaborò anche al Corriere della Sera) direttore di giornali, critico musicale, commediografo, romanziere, poeta, è ricordato solo da chi apprezza Umberto Giordano e la sua Fedora e Francesco Cilea e la sua Adriana Lecouvreur, di cui lo scrittore fu l’acclamato librettista; come di altre opere però dimenticate. Primadonna è la storia di Carlo Coletti, un giovane critico musicale onesto e perciò (allora, oggi non so) poverissimo, mal maritato, che si innamora di una bella e virginale pessima cantante, gran suscitatrice di apprezzamenti salaci, di assalti di seduttori respinti e di fischi feroci dei loggionisti, quando debutta in una disastrosa Lucia di Lammermour. Attorno a questo melodramma con finale aperto, c’è, in parte ancora attuale, lo scontro tra tradizionalisti e sostenitori del melodramma verista della cosiddetta Nuova Scuola, tra verdiani e wagneriani, che anche l’anno scorso infiammò il mondo musicale soprattutto milanese; e poi impresari «usurai della scena», editori di riviste musicali con articoli a pagamento, cantanti disposti a regalare spille di brillanti a critici corrotti per avere bugiarde esaltanti recensioni. Di sicuro invece sono cambiati i gusti estetici: oggi le primedonne devono essere possibilmente belle e sottili, allora dovevano essere belle e grasse, o quello era il gusto particolare di Colautti che descrive la bella pessima cantante sedicente polacca o forse «di Bergamo o di Campobasso», come «una Giunone ventenne», una «bella come la Gioconda e formosa come la Fornarina». Nella vita, lo scrittore non era stato fortunato con le donne e questo suo romanzo racconta tutto il suo astio per loro. La stessa Miriam Dobrowsky che sconvolge di passione la vita di Coletti, è descritta come ignorante e stupida, «dove è l’imbecille che vorrebbe adorare quell’oca?», si chiede l’innamorato.
Il protagonista e anche lo scrittore detestano le magre, le brutte, le vecchiacce; e la moglie del giovane critico, distrutta dal dolore per la morte della loro bambina, dall’indigenza, dalle malattie e della gelosia, viene descritta impietosamente come mostruosa, strega, Santippe, rudere, vecchia cachettica, stupida, cattiva. Il romanzo è parzialmente autobiografico e, come Coletti, l’autore era balbuziente, stempiato (però grassoccio e con grossi baffi), aveva avuta una madre fanatica di religione che lo voleva prete e un padre assente o se c’era, cattivissimo.
A 19 anni aveva messo incinta una ragazza fiorente ma più vecchia di lui, incolta e povera e l’aveva sposata. La loro figliolina era minorata, e si spense a pochi anni di vita, mentre la moglie, non più bella e mai amata, gli divenne insopportabile. Non ebbe altre compagne e forse si innamorò della poetessa Annie Vivanti per la quale scrisse una poesia intitolata Annie e pubblicata sulla Cronaca Partenopea. Colautti era nato nel 1851 a Zara, in Dalmazia, padre ingegnere friulano al servizio dell’Impero Austroungarico, madre francese. Giornalista irredentista, fondatore di fogli politici di poco successo sin da giovanissimo, non aveva ancora 30 anni quando fu espulso per sempre dall’Impero, vagando esule per l’Italia, Padova, Milano, Perugia, Napoli, Roma. Intransigente e di pessimo carattere, come anche oggi è raro per un giornalista, era politicamente fastidioso, tanto da perdere in continuazione il lavoro; quando come direttore del Corriere di Napoli si mise ad attaccare Zanardelli e Giolitti, il governo comprò il giornale e lo licenziò. Anche Coletti, prima dell’incontro fatale, è un critico musicale fiero di essere incorruttibile, scegliendo una povertà greve, vivendo con la famiglia in un puzzolente, angusto, miserabile abbaino in affitto. Colautti ebbe sempre problemi finanziari, anche se aveva una sua notorietà. Oggi forse i giornalisti in genere hanno meno importanza e spazio di un tempo e devono spesso tener conto che i giornali hanno bisogno della pubblicità. I critici, poi, magari non venduti come quelli descritti in Primadonna, talvolta finiscono per non essere credibili perché spinti da antipatie o simpatie generiche e legami personali. A 60 anni l’eclettico scrittore adottò una giovane polacca: allontanato dal giornalismo, diventò un acceso interventista, ma morì nel novembre del 1914, sei mesi prima che anche l’Italia entrasse in guerra. La sua biografia, scritta dalla figlia adottiva e pomposamente intitolata Il poeta della Vigilia Italica, pubblicato nel 1939, lo fece amare dal fascismo che lo chiamò, poveretto, il Bardo Dalmata, per poi dimenticarlo.
Natalia Aspesi, il Venerdì di Repubblica 10/10/2014