Varie, 13 ottobre 2014
In una città ingrigita dalla polvere alzata dal fango secco, dove stanno fianco a fianco i ragazzi con gli stivali e le signore che prendono il tè nelle pasticcerie ancora aperte, i genovesi non smettono di interrogarsi sulle responsabilità dell’alluvione di giovedì
In una città ingrigita dalla polvere alzata dal fango secco, dove stanno fianco a fianco i ragazzi con gli stivali e le signore che prendono il tè nelle pasticcerie ancora aperte, i genovesi non smettono di interrogarsi sulle responsabilità dell’alluvione di giovedì. E a tratti esplode la rabbia. Il sindaco Marco Doria nella mattinata affronta i commercianti e raccoglie gli insulti: «Pagliacci», «Dimezzatevi lo stipendio», «Dimissioni! Dimissioni!». Fra poco arriverà il ministro dell’Ambiente Galletti, non verrà invece il premier Matteo Renzi che affida a Facebook il suo pensiero: «Se vogliamo essere seri, se vogliamo evitare le passerelle e le sfilate da campagna elettorale l’unica soluzione è spendere nei prossimi mesi i due miliardi non spesi in ritardi burocratici. Basta scaricabarile». I due miliardi si riferiscono a tutta l’Italia. E nel ringraziare gli angeli del fango Renzi assicura: «Userò la stessa determinazione per spalare via il fango della mala burocrazia, dei ritardi, dei cavilli». Ho già iniziato, dice, col decreto Sblocca Italia. Intanto, per l’immediato il sindaco Doria chiede al governo di sospendere i pagamenti fiscali per gli alluvionati, il Comune fa la sua parte sospendendo da subito Tari, Imu e Tasi. Ma le polemiche si autorigenerano come i temporali che — secondo le previsioni — ancora minacciano Genova e la Liguria fino alla mezzanotte di oggi. Da una parte volano accuse per i premi appena dati ai dirigenti comunali per aver «mitigato i rischi del dissesto idrogeologico» (40 mila euro), dall’altra si punta il dito contro le ditte che facendo ricorso al Tar nel 2012 avrebbero bloccato i lavori sul Bisagno. «Non è vero — dice Orlando Pascucci, titolare di una delle ditte, la Pamoter —, il mio ricorso non ha bloccato proprio niente perché il Tar non solo non ha sospeso i lavori ma ha scritto che potevano partire». Sotto la responsabilità del commissario governativo, ovviamente. «Se hanno preferito restare fermi — dice Pascucci — forse pensavano che qualche ragione io la potessi avere e rischiavano di perdere la causa». Quindi, dice l’imprenditore, «non mi sento colpevole proprio di niente, io ho difeso il mio diritto e il mio lavoro. La commissione giudicatrice della gara era incompetente, non c’era neanche un ingegnere idraulico. Per questo ora farò ricorso al Consiglio di Stato». Ma questa volta il governatore Burlando ha detto che andrà avanti con l’assegnazione dei lavori. Mentre il capo della Protezione Civile Gabrielli dice che «migliaia di volontari premono» per aiutare Genova (ieri non sono mancati momenti di tensione tra spalatori e militari), Beppe Grillo ha annunciato il suo arrivo oggi. Ieri anche papa Francesco ha invitato a pregare per la città. Erika Dellacasa, Corriere della Sera 13/10/2014 *** E pensare che li chiamavamo «pisciueli». Per dire che in quei torrenti un po’ d’acqua c’era, ma poca. Adesso e da quasi mezzo secolo quei nomi fanno paura: Bisagno, Fereggiano, Scrivia. Si sono risvegliati l’altro giorno con tutta la cattiveria di cui a volte sono capaci. I venti di tramontana e di scirocco si sono azzuffati sopra di loro. E, come capita quando il respiro freddo della ripida collina e l’alito caldo del mare si scontrano, l’acqua dei placidi torrenti diventa furia devastante. Come quella che descriveva Fabrizio De André nella sua canzone triste come una poesia «Dolcenera»: «Non è l’acqua di un colpo di pioggia ma un gran casino, un gran casino». Era l’acqua dell’alluvione del 7 ottobre 1970. Che è tornata il 4 novembre del 2011. Che è ritornata il 9 ottobre del 2014. Un’acqua «nera che picchia forte, che butta giù le porte; acqua che spacca il monte, che affonda terra e ponte». È la faccia schizofrenica del solito placido Bisagno che rotola verso il mare a cinque metri cubi al secondo, dove i bambini in villeggiatura e i figli dei contadini infilavano le mani sotto i sassi sperando che fossero tane per arpionare un pesce, e se eri fortunato forse addirittura una trota. Ora il Bisagno fa paura. La sua vita è lunga appena trenta chilometri (dal passo della Scoffera alla Foce — appunto — di Genova). In epoca romana il suo letto era molto più ospitale: quattro volte più largo e profondo tanto che per secoli ci si è potuto trasportare il legno di castagno che serviva per costruire le navi. E lo Scrivia, che ha devastato il paese di Montoggio, non era il posto dove, quando c’erano e quando si potevano pescare, si andava per trote, cavedani, ghizzi e barbi? E sulle rive del Fereggiano non si portavano le olive al frantoio? Tre giorni fa il torrente ha portato distruzione, tre anni fa l’acqua nera della morte. Vento che porta acqua, acqua che porta morte, ma anche — come ha scritto Antonio Tabucchi in «Il filo dell’orizzonte» — i palazzi e i palazzoni della cementificazione delle colline così che «a volte la collina smotta come se volesse scrollarsi di dosso quelle brutte incrostazioni. E poi vi sono strade da fare, tubature da allacciare...». Venti che senti addosso, sulla e nella pelle, venti che portano tanti sentimenti, anche la paura, come quelli che sa descrivere Maurizio Maggiani in «La Regina disadorna»: dall’aggressivo maestrale alla disarmante macaia. Ora anche gli altri torrentelli che circondano Genova hanno un’aria minacciosa: il Rio Monte di Pino, il Molinetto, il Finocchiara. Anche loro hanno scaricato dalla collina la loro acqua che sa di terra e di marcio. E anche quell’odore di gas che si appiccica dappertutto continua a far paura. E che malinconia leggere le scritte che annunciano: la programmata campagna che doveva svolgersi in piazza De Ferrari è stata annullata. Il titolo della campagna era: «Io non rischio l’alluvione». Francesco Cevasco, Corriere della Sera 13/10/2014 *** La sceneggiatura prevedeva luci possibilmente basse e un sindaco amareggiato e ferito nell’orgoglio dalla contestazione dei suoi cittadini. «Sono uscito di casa sapendo bene cosa sarebbe successo. Era pressoché certo. Ci sono andato comunque perché era giusto farlo. Dovevo essere sul posto. Certo, non è gratificante essere individuato come responsabile di un sistema che non funziona. Ma un amministratore non può nascondersi solo perché teme di essere insultato». Vattene, dimezzati lo stipendio, mettiti anche tu a spalare, e molti epiteti non trascrivibili. La previsione di Marco Doria sulle due ore di passeggiata domenicale con vista su negozi allagati, palazzi pericolanti e auto sepolte dal fango si è rivelata corretta. «Almeno quella». Il taccuino era pronto ad accogliere uno sfogo sull’ormai insostenibile pesantezza dell’essere sindaco. Ma l’ultima intervista della giornata ha un andamento diverso. E non solo a causa dell’illuminazione al neon nella sala al decimo piano del cosiddetto «Matitone», il palazzo che ospita la centrale operativa di Comune e Protezione civile. «Ci stava. In qualche modo è anche giusto così, perché rappresento le istituzioni, che quasi mai si dimostrano all’altezza del compito a loro assegnato. Dire che siamo vicini alla gente non basta. È difficile essere davvero vicini alle persone quando le risposte che puoi dare alle loro esigenze sono sempre e solo parziali. A volte mi chiedo che senso abbia un ruolo come questo quando gli strumenti a disposizione sono così inadeguati». Marco Doria è in buona sostanza un comunista degli anni 50-60. «Faccio outing: alle ultime elezioni ho votato Sel, che ancora esisteva». Essendo anche uno storico, nonché stanco di sentirsi ripetere che è un uomo del Novecento, non vive nel rimpianto dei bei tempi andati. La sua impronta così antica lo rende un esemplare unico nella politica italiana, capace di generare discreti paradossi. L’aristocratico professore universitario che vanta tra gli antenati un paio di fondatori della Repubblica marinara non guarda la televisione ma funziona in televisione, al punto da tenere testa a Daniela Santanchè, che sugli studi di Mediaset e Rai a momenti ci paga l’Imu. «Chi me lo fa fare? Mi chiedo spesso a cosa serve un impegno personale e diretto come il mio. So bene che prendere la vanga e mettermi a spalare, come mi chiedevano alcuni ieri, sarebbe molto più facile. Ma il mio ruolo non è questo. Se lo facessi sarei un demagogo. I cittadini hanno ogni diritto a urlare contro questo sistema. Io non posso farlo, perché rappresento le istituzioni. Anche quando non funzionano. È troppo facile stare fuori e dentro al tempo stesso». Nonostante la rabbia, Genova sembra rassegnata al suo destino, al suo declino. A ogni disastro spunta qualcuno con la sua tesi, con l’acqua al suo mulino. Poi tutto ricomincia come prima. «C’è una retorica ambientalista dell’emergenza che detesto. Quando sento dire che basterebbe tenere i rivi puliti per evitare tragedie, mi viene voglia di urlare. Il Bisagno porta mille metri cubi di acqua al secondo. E li vogliamo fermare togliendo gli arbusti? Queste sono balle. La verità è che servono grandi opere di ingegneria idraulica. Costano centinaia di milioni, ma sono soldi necessari a salvare delle vite umane. Lo Stato deve trovarli». Gli occhi cerchiati di rosso e la barba di tre giorni sono il corredo minimo richiesto a un sindaco che ha ancora la città invasa dal fango e un’allerta da codice rosso sulle precipitazioni di questa mattina. Doria viene spesso accusato di eccessiva rigidità, nella gestione della cosa pubblica e nei comportamenti. Ieri una signora gli ha detto che se ci tenesse davvero alla città dovrebbe incatenarsi davanti «ai palazzi del potere». Ha toccato un tasto dolente, l’impossibilità del gesto liberatorio. «Aveva ragione lei. Forse dovrei farlo. Mi chiedo spesso come fare a scuotere questo sistema. Se le mie dimissioni servissero a cambiare una situazione insostenibile, le avrei già date. L’alternativa è tra l’uscita di scena e la testimonianza. Io cerco di dare voce alla protesta senza urlare. Certe iniziative rendono molto in popolarità, ma spesso confinano con la cialtroneria. Credo che nell’Italia di oggi ci sia bisogno di serietà. Non credo renda molto, ma è necessaria». A fargli male non sono gli insulti ma un pronome personale. Quel «voi» indistinto che sempre accompagna la ricerca di un capro espiatorio è quasi insopportabile per un uomo che viene considerato una specie di marziano dai suoi stessi alleati, a cominciare dal Partito democratico. «Ma chi è “voi”? Io rivendico il diritto a essere giudicato per quello che faccio. Posso anche avere dubbi sull’utilità di un sindaco di questi tempi. La nostra carica è depotenziata dall’assenza di ogni risorsa. A volte ci si sente impotenti, e in questi giorni mi è accaduto spesso. Prendo atto di essere incapace di modificare da solo certe situazioni. Ieri mattina ho fatto da parafulmine per conto dello Stato. Ma il ruolo di un sindaco non può e non deve ridursi a questo». Marco Imarisio, Corriere della Sera 13/10/2014 ***