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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

L’ITALIA INSEGNA

Lo scorrere del tempo purifica lo sguardo e al tempo stesso nobilita tutto ciò su cui di proposito o accidentalmente si posa. Così sarebbe bellissimo se quelle schifezze grafiche che si vedono oggi sui negozi e i cartelloni pubblicitari, sulle targhe o le indicazioni stradali diventassero un domani piacevoli a guardarsi, eleganti, rappresentative del genius loci, meritevoli di appassionata attenzione perfino al di là dell’oceano. Questa specie di speranza estetica, e magari anche un po’ civica, germoglia dopo aver sfogliato con crescente emozione Grafica della strada. The signs of Italy di Louise Fili. Studiosa e art director di fama, lei si definisce «italophile», in realtà non è solo di origini italiane, ma soprattutto così innamorata dell’Italia da confessare che il colpo di fulmine l’afferrò nel suo primo viaggio, a sedici anni, e per sempre, davanti al marchio, invero rimarchevole, dei Baci Perugina. E ogni anno vola qui, gira per mercatini e librerie dell’usato, colleziona lattine, cartoline, etichette e anche quelle meravigliose carte con cui tuttora in Sicilia si rivestono le arance. Per anni Fili ha girato le città italiane (Torino, Bologna, Lucca, Roma le preferite) fotografando, tra mille difficoltà di traffico e malumori, ogni genere di insegne. Questo libro di immagini è perciò un tributo d’amore, tanto inaspettato perché le sue scelte restituiscono a chi qui è nato, ma non ha più occhi per vederli, autentici tesori solo nostri, stupendi svolazzi di lettere sulla pietra, preziosi sbalzi di ferro battuto, rifiniture lignee degne di grandi artisti, foglie d’oro di meravigliosa leggerezza, fregi sorprendenti, animali, conchiglie, draghi, stemmi, medaglie, come pure creazioni di austera e miracolosa semplicità. Segni, sogni, lettere e numeri di fattura unica e irripetibile, ormai, eco visiva di un tempo in cui le botteghe avevano nomi e funzioni antiche: “Beccheria”, “Mesticheria”, “Aguzzeria del cavallo”, “Cordami”, “Mescita”, “Albergo diurno”. Una sorta di cimitero segnaletico di mestieri scomparsi e di merci perdute, misteriose, vietate: “Arrotino”, “Carni avicunicole”, “Sbigoli”, “Storini per finestra”, “Frattaglie”, “Zerbini”, “Elixir”, “Armi”, “Pantofole”, “Coca boliviana”, “Si riammagliano calze”. L’umile Italia e frugale, variopinte visioni di un paese contadino — “Sementi”, “Cereali” — ma anche eclettico, neoclassico, capriccioso; un panorama che da un lato si riveste di Liberty, dall’altro non smette mai di dedicarsi all’essenziale. Per cui la storia visiva del paesaggio urbano s’intreccia con quella del potere, il suo stile, i suoi materiali. Il fascismo improvvisa una classicità romana su misura, adora i mosaici in bianco e nero e del tutto ignaro dell’effetto bagno pubblico li impone agli impianti sportivi e alle stazioni ferroviarie. Lunghe frecce appuntite, littoriade diffusa, scritte prescrittive, spesso a vuoto. Il razionalismo ingrossa i caratteri, squadra le lettere, ma sulle pollerie, sui negozi di vini e oli o su quelli di calzature il colpo d’occhio è fantastico.
Quando arriva il neon, l’Italia è già ripartita ed è forse il tempo più felice perché vario nella sua nuova e curiosa libertà. Storici ristoranti testimoniano del benessere a portata, l’artigianato come una via felice che esprime insieme uno slancio e un’identità.
Poi succede qualcosa. Ecco le macchine, ecco la grafica computerizzata. E sarà anche inevitabile, ma si rompe un incanto, scompare una meraviglia, si consuma una tradizione, si incrina un’estetica. Forse ha a che fare con quello che Pasolini, profeta di sciagure abbastanza veritiere, designava «sviluppo senza progresso». Sta di fatto che le merci non sono più quotidiane o periodiche necessità, nel giro di un ventennio finiscono per vivere di vita propria. I caratteri tipografici, i colori, i fondali, le stesse indicazioni sembrano di colpo uguali. L’omologazione è disumana, tanto più prepotente quanto meno percepita come un rullo compressore che insieme alle latterie, alle mercerie e alle legatorie di libri andava schiacciando anche la sobrietà dei numeri, la ricerca di equilibrio, il calore, l’inventiva, il senso di un lavoro e in fondo di una civiltà. Non è solo una faccenda di nostalgia, né di furbo recupero del vintage. Il piccolo grande museo a cielo aperto di Louise Fili si ferma negli anni ’70. Con il che volendo misurare il vuoto di bellezza arrecato dai segni del consumo basta soffermarsi su quanto faticosamente ha fin qui resistito sulle vie d’Italia in termini di premura individuale, sincerità di intenti ed efficacia del messaggio.
Così come basta scorgere i cieli azzurri dietro i cartelli degli stabilimenti balneari per cogliere un’atmosfera che è e per fortuna resta solo italiana. Basta confrontare le botteghe di una città o dell’altra per capire che la differenza è vitalità. Basta soffermarsi sulle insegne-fantasma, veri e propri ectoplasmi murali, scritte logore e semi cancellate che annunciavano qualcosa che non c’è più, come se il loro disuso facesse meglio risaltare la superba umiltà fra intonaci scrostati, macchie d’umido, ombre di fumo, abbagli di plastica.
Perché le insegne, queste della Grafica della strada , non rispecchiano solo la storia sociale o estetica, ma nascondono e insieme trasmettono potenza e poesia. Si pensi alla “T” bianca su campo blu dei Tabacchi, con lo stellone; oppure alla candida colomba che sembra essersi posata su una cartoleria “con fabbrica di registri all’insegna del Palombo”.
Come ogni bel libro d’immagini se ne consiglia l’osservazione insieme a qualcuno. Da soli, il rischio del rimpianto nuoce allo sguardo. E se nel passato, in realtà, c’è anche il futuro, non è detto che rassegnarsi al brutto sia l’unica via di fuga.
Filippo Ceccarelli, la Repubblica 12/10/2014