Sissi Bellomo e Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 11/10/2014, 11 ottobre 2014
PETROLIO AI MINIMI DA 4 ANNI
Tensione e nervosismo hanno caratterizzato anche l’ultima giornata di una settimana complicata per i mercati azionari europei, che in alcuni casi hanno ceduto gran parte dei guadagni accumulati da inizio anno e in altri hanno toccato minimi di periodo più lunghi. Il tema che spaventa gli investitori e che riporta alla volatilità di un tempo è legato ai timori per la crescita (soprattutto in Europa) e alle difficili risposte che a questo problema potranno dare le Banche centrali. Timori che si riflettono sul petrolio, piombato ieri ai minimi degli ultimi 4 anni sotto i 90 dollari al barile (salvo tornare sopra la soglia in chiusura): un movimento che è da un lato conseguenza del rallentamento globale e dall’altro causa di ulteriori pressioni sui listini azionari.
Alla fine Piazza Affari (in attesa dei pronunciamenti di Moody’s e Dbrs sul rating italiano, previsti dopo la chiusura) ha ceduto lo 0,94% e il bilancio avrebbe potuto essere più pesante se Wall Street non avesse tentato un timido rimbalzo dopo un avvio debole. Peggio è andata a Francoforte, dove l’indice Dax è arretrato del 2,4% per toccare i minimi da un anno. La Germania è del resto tenuta sott’occhio dagli investitori, che a questo punto temono una ricaduta in recessione e si attendono una revisione delle stime sul Pil da parte del Governo di Berlino all’inizio della prossima settimana.
La debolezza che si è vista sull’azionario ha condizionato l’euro (tornato a 1,2630 dollari) e ha invece solo sfiorato il reddito fisso: il rendimento del Btp decennale è leggermente salito al 2,33%, ma si tiene vicino ai minimi storici, mentre lo spread col Bund è aumentato a 144 punti base anche perché i tassi del titolo tedesco si sono ridotti allo 0,89%.
In un simile contesto il Tesoro ha potuto collocare agevolmente 8 miliardi di BoT a 12 mesi: il rendimento è sì salito allo 0,301% dai minimi storici raggiunti nell’asta di un mese fa (0,271%), ma la domanda solida (1,7 volte l’offerta contro 1,64 del mese precedente) favorita anche dall’elevato numero di bond in scadenza testimonia che l’appetito per la "carta" italiana è sempre vivo.
Il mercato sembra invece aver perso l’appetito per il petrolio e ieri l’ondata ribassista si è ingrossata al punto da travolgere nel caso del Brent la barriera dei 90 dollari al barile: una soglia non solo psicologica, ma anche tecnica, che ha innescato una serie di ordini stop-loss. Uno scossone è arrivato anche dalla presenza di un gran numero di opzioni put (che danno diritto a vendere), con prezzo di esercizio proprio a 90 dollari: con l’avvicinarsi dello strike-price, molte banche si sono affrettate a coprirsi vendendo futures e accelerando così la caduta di prezzo del Brent, che è arrivato fino a 88,11 $/barile, il livello più basso dal 2010. Una sorte analoga è toccata al Wti, sceso a 84,39 $ e anch’esso ormai in bear market come il Brent, ossia in ribasso di oltre il 20% rispetto al picco di giugno.
Non è tuttavia solo con motivi tecnici che si spiega la tendenza ribassista del petrolio (e più in generale delle materie prime, nel complesso vicine ai minimi da 5 anni). Dopo anni di prezzi da primato, l’offerta di commodities è cresciuta, nel caso del greggio per merito soprattutto dello shale oil americano. Ma la nuova produzione sta arrivando nel momento sbagliato: la domanda è debole e per di più rischia di frenare ancora. In una situazione del genere solo un forte taglio di produzione da parte dell’Opec potrebbe forse riuscire a invertire la tendenza. Ma il cartello degli esportatori sta al contrario estraendo sempre più greggio e i suoi membri – Arabia Saudita in testa – sembrano impegnati a contendersi quote di mercato piuttosto che a difendere i prezzi.
Sissi Bellomo e Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 11/10/2014