Marco Imarisio, Corriere della Sera 11/10/2014, 11 ottobre 2014
«Le mie due bambine affogate per niente» Flamur ha perso le figlie e la moglie nell’alluvione del 2011, ora aiuta gli altri Il sottoscala del palazzo della tragedia si è allagato anche questa volta DAL NOSTRO INVIATO GENOVA «Con la presente e in merito alla richiesta di risarcimento avanzata per conto dei parenti delle defunte Djala Gianissa, Gioia e Shpresa connesse al noto evento alluvionale siamo a comunicarle che non riteniamo ravvisabile alcuna responsabilità del Comune per i fatti lamentati e pertanto, seppur spiacenti, non possiamo accogliere l’istanza presentata in nome delle sopra specificate signore Djala»
«Le mie due bambine affogate per niente» Flamur ha perso le figlie e la moglie nell’alluvione del 2011, ora aiuta gli altri Il sottoscala del palazzo della tragedia si è allagato anche questa volta DAL NOSTRO INVIATO GENOVA «Con la presente e in merito alla richiesta di risarcimento avanzata per conto dei parenti delle defunte Djala Gianissa, Gioia e Shpresa connesse al noto evento alluvionale siamo a comunicarle che non riteniamo ravvisabile alcuna responsabilità del Comune per i fatti lamentati e pertanto, seppur spiacenti, non possiamo accogliere l’istanza presentata in nome delle sopra specificate signore Djala». Flamur estrae il foglio piegato in quattro dalla tasca dei jeans. La lettera della compagnia di assicurazioni fa riferimento al «sinistro avvenuto in data 4 novembre 2011». Il suo sguardo contiene una rabbia muta che da tempo ormai è sfumata nella rassegnazione. Quella mattina, quando uscì di casa, era ancora il signor Djala. Era un uomo quasi felice, come può esserlo un uomo che ha una famiglia. Fu suo fratello Juri a chiamare. Aveva visto tutto. Le aveva fatte scendere dal Doblò, le aveva salutate. Shpresa, la signora Djala. Gioia che era appena uscita da scuola. Janissa che non aveva ancora compiuto il suo primo compleanno. Le sue figlie. La sua vita. Erano state travolte dall’onda di un torrentello che si chiama Fereggiano, scaraventate nel sottoscala pieno d’acqua di una elegante palazzina, dove avevano trovato una morte orribile insieme ad altre due persone, anche loro mamme che stavano tentando di rientrare a casa. La verità è che potremmo prendere gli articoli pubblicati allora e rimetterli sul giornale di oggi. Nel sottoscala della palazzina di via Fereggiano 2 la pompa elettrica sta cercando di svuotare le cantine. L’acqua si è fermata a 70 centimetri, ma solo perché il portone era chiuso. Piazza Verdi, l’immagine che si presenta agli occhi dei passeggeri appena usciti dalla stazione di Brignole, è un pantano che impedisce persino di distinguere il verde dei giardinetti. Il salotto di via XX settembre è un deposito a cielo aperto di oggetti abbandonati e fradici, gettati dai negozi, indumenti per bambino, accessori per computer, arredamento da ufficio, tutto marcio. Anzi, questa volta è stato anche peggio. Nel 2011 la massicciata sotto alla quale sparisce il Bisagno, il torrente che attraversa la città come un filo teso dall’entroterra al mare, fece da tappo causando l’esondazione del rio Fereggiano. La scorsa notte gli argini laterali non hanno retto, come accadde nel disastro del 1970. L’acqua è schizzata con una violenza che si può solo immaginare guardando i blocchi di granito degli argini divelti e sparsi su corso Galileo Galilei come pezzi di Lego nella stanza dei bimbi. Alfonso Bellini, geologo e perito della Procura, fa un giro di parole per dire quel che pensano tutti, in fondo è andata bene. È successo alle 23 dopo ore di pioggia ininterrotta. Le strade erano deserte. Altrimenti saremmo qui a contare i morti. Fortuna, solo fortuna. «Mi chiedo a cosa sono servite le morti delle mie bambine, di mia moglie. Nulla, a nulla. Odio Genova, è una città condannata. Ogni volta che piove si muore. E nessuno può farci nulla». La scorsa notte Flamur si è svegliato alle cinque. Abita ancora nella casa vicina a via Fereggiano, con Juri e l’altro fratello Andrea, che non lo lasciano mai solo, da quel giorno si danno il cambio per aiutarlo. Sono loro che hanno acceso la luce della sua stanza. Come fanno tutti i genovesi per riflesso condizionato, hanno guardato in strada. L’acqua scorreva marrone, mista a fango. Sta succedendo di nuovo, gli hanno detto. Lo hanno preso e lo hanno messo sul Doblò, proprio quello. È dall’alba che stanno scavando con le pale, ovunque ce ne sia bisogno, a Sturla dai clienti disperati che hanno i magazzini invasi dalla melma, in corso Firenze fermati in mezzo alla strada da sconosciuti in cerca di aiuto. Spalano, come tanti genovesi, per aiutare gli altri e salvare un fratello maggiore che affonda da tre anni. «Fosse per me non ci sarei più, sarei da un’altra parte. Vado avanti per loro. Abbiamo viaggiato tanto in questi anni, dalla nostra Scutari alla Grecia fino a qui. Sempre insieme. Non posso abbandonarli». L’altrove di Flamur, gonfio e rassegnato, triste come può esserlo solo un uomo che non ha più nulla, non è un luogo fisico ma la conseguenza di un peso intollerabile. «Ogni volta è uguale all’altra. Come una maledizione». Davanti alla ferraglia contorta delle auto, al fango che è ovunque, per terra, sui vestiti e nella testa delle gente, è davvero difficile non pensare all’eterno presente al quale è condannata Genova. Anche questa volta si piangeranno i morti, si faranno le inchieste, qualcuno forse pagherà. Nell’attesa della prossima pioggia tutto è destinato a scorrere nella stessa, ineluttabile lentezza, e pazienza per chi è rimasto indietro. Dopo quella brutta lettera del suo Ufficio sinistri il Comune ha fatto sapere di essere disponibile almeno a un incontro. Intanto la scorsa settimana è arrivato il risarcimento onnicomprensivo dei danni subiti dal magazzino e dei tre furgoni distrutti nell’alluvione del 2011. Tre anni dopo, a Flamur e i suoi fratelli è stata concessa la bellezza di 5.500 euro . Marco Imarisio