Luigi Zingales, GQ 10/2014, 10 ottobre 2014
IL VERO POTERE GLOBALE
Nel 1918 Oswald Spengler pubblicò “Il tramonto dell’Occidente”. Il libro fu un successo, ma si dimostrò errato nelle sue previsioni. Gli anni che seguirono rappresentarono infatti non il tramonto, ma il trionfo dell’Occidente. Nonostante una devastante Guerra mondiale e le tensioni prodotte dalla successiva Guerra fredda, i valori e le economie occidentali si diffusero dappertutto. Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, gli Stati Uniti rimanevano l’unica superpotenza a livello mondiale. Un mondo senza guerre sembrava a portata di mano. Il 1999 rappresenta l’apice di questo trionfo.
Durante i vent’anni precedenti, le economie occidentali erano state le maggiori beneficiarie della globalizzazione; da un lato, l’afflusso di prodotti a buon mercato dai Paesi in via di sviluppo contribuiva a realizzare il sogno di “un pollo in ogni pentola, una macchina in ogni garage”; dall’altro, il bisogno di macchinari e investimenti proveniente da quegli stessi Paesi trainava la domanda dell’Occidente, garantendo la piena occupazione e spingendo i mercati finanziari. L’Internet boom faceva il resto. Anche lo scettico governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, che nel 1996 aveva messo in guardia dal pericolo di un’eccessiva valutazione del mercato azionario, nel ’99 aveva sposato la tesi del “miracolo della produttività”.
La produttività è la quantità di output per unità di input. Più questo rapporto cresce, più ricchi diventano gli abitanti di un Paese. La produttività americana, che negli anni Settanta e Ottanta era cresciuta poco più dell’1% all’anno, negli ultimi anni del secolo cresce a ritmi del 4% all’anno. Anche l’Italia godeva di un momento felice. Dopo il rischio di default durante la crisi del 1992, il governo aveva abbattuto il debito con le privatizzazioni. Dopodiché, Prodi, con una manovra “lacrime e sangue”, era riuscito a far entrare l’Italia nell’euro.
È vero, l’economia italiana aveva già cominciato a rallentare, e così la crescita della produttività. Tra il 1996 e il 1999 la Gran Bretagna e perfino l’India avevano superato il Prodotto Interno Lordo dell’Italia, almeno a parità di potere d’acquisto. Ciononostante, l’Italia rimaneva l’ottava economia più grande al mondo e sedeva ai vertici del G8 tra le potenze che contano. L’entrata nell’euro ci faceva sentire europei di serie A, e ne andavamo fieri. Con gli occhi di oggi, quella ci sembra un’epoca molto lontana.
Negli ultimi quindici anni il rapporto tra l’Occidente e il resto del Mondo si è capovolto. Alla fine di quest’anno la Cina diventerà la più grande economia al mondo, sorpassando per la prima volta gli Stati Uniti. Il prodotto pro capite di Hong Kong e Singapore supera quello degli Usa. Perfino i grattacieli più alti oggi vengono costruiti in quello che una volta veniva definito “il terzo mondo”.
Nel frattempo, l’Italia è scesa sotto le prime dieci economie del pianeta. I vertici dei G8 sono stati rimpiazzati dai G20 in cui un peso crescente hanno Brasile, India, Russia, Cina e Sudafrica, i cosiddetti “Brics”. In Europa, quando non siamo classificati tra i “Pigs”, veniamo ritenuti parte del “Club Med”, la periferia sud.
Frattanto, il sogno della pace mondiale si è infranto l’11 settembre 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle. La superpotenza americana è uscita logorata da una guerra senza fine e senza senso in Iraq e in Afghanistan e sta perdendo il suo ruolo egemone. Dall’Ucraina alla Siria, dall’Iraq a Gaza, i focolai di guerra si moltiplicano. Ma i cambiamenti maggiori sono avvenuti nel settore economico. Negli ultimi vent’anni del secolo scorso, le economie dei Paesi emergenti per lo più producevano quello che le nazioni sviluppate non volevano più produrre. Erano al fondo della cosiddetta catena del valore. Negli ultimi quindici anni non è più così.
La coreana Samsung compete alla pari con l’americana Apple, dopo aver lasciato nella polvere la giapponese Sony. La cinese Alibaba spiazza le americane Amazon ed eBay. La seconda società mineraria al mondo è brasiliana, mentre la più grande produttrice di acciaio è indiana. L’India è anche uno dei primi produttori al mondo di software, la Cina di computer. In India non vengono spostati solo i call center, ma i centri di calcolo e di progettazione. La competizione dei Paesi emergenti si fa intensa anche nei prodotti a più elevato valore aggiunto.
Se da un lato questo progresso garantisce un’enorme abbondanza materiale (oggi il tipico adolescente usa cellulari con una potenza di calcolo di molto superiore a quella che la Nasa usò per mandare l’uomo sulla luna), dall’altro continua a comprimere i salari della classe media in Occidente.
I nostri diplomati e laureati oggi competono non più con un ristretto numero di rivali, ma con il mondo intero. Se vent’anni fa un diploma di ragioneria posizionava un ragazzo nella fascia alta della competenza e conoscenza a livello mondiale, oggi lo rende uno come tanti altri. L’istruzione, che una volta consentiva un biglietto sicuro per una vita agiata, oggi è diventata una condizione necessaria, ma non sufficiente.
Come spesso accade, all’ascesa economica dell’Oriente si accompagna anche una nuova egemonia culturale. Gangnam Style, la canzone di un rapper sudcoreano, nel 2012 è diventata un successo planetario, il primo non prodotto in Occidente. I registi indiani riempiono le sale cinematografiche non solo del loro Paese d’origine. Le vecchie trattorie italiane diventano sushi bar. Perfino la religione è in declino: l’Islam continua a fare proseliti anche in Occidente. Di fronte all’avanzata dell’Oriente la tentazione, tanto in America quanto in Italia è quella di rifiutare una globalizzazione di cui non sembrano beneficiare i più. Insidiato nella sua egemonia economica e culturale, il mondo occidentale tende a ripiegarsi su se stesso. Ma sarebbe un grave errore.
Quand’era l’Occidente che avanzava, rischiando di sovvertire l’ordine sociale esistente, nel 1641 il Giapponesi chiuse al mondo esterno. Perse due secoli, che poi fu costretto a recuperare a passo di marcia per evitare di essere annientato anche militarmente.
Un’America protezionista e isolazionista sarebbe un danno enorme, politico ed economico, per il mondo intero. Allo stesso modo, un’Italia fuori dall’Europa e fuori dal mondo rischierebbe la fine del Giappone dei Tokugawa.
Invece di inseguire un passato idilliaco che non ritornerà più, l’Italia deve abbracciare la globalizzazione, sfruttandone i numerosi vantaggi e cercando di ridurne il più possibile gli svantaggi.
Negli ultimi quindici anni, lo sviluppo dei Paesi emergenti si è focalizzato su prodotti di largo consumo: sfruttando la manodopera a basso costo e le economie di scala, hanno spiazzato molte delle nostre piccole industrie. Finora abbiamo pagato il costo dello sviluppo in Cina e in India. Ora, però, arrivano i benefici. Perché lo sviluppo di questi Paesi ha anche creato un’élite economica locale, interessata a prodotti di lusso.
L’ampliamento della domanda per prodotti sofisticati e di qualità dovrebbe favorire le imprese italiane, specializzate in categorie di nicchia. Per sfruttare questo mercato, però, è necessario un cambio di mentalità, perché le imprese italiane si basano ancora troppo sul rapporto di fiducia personale: tra il consumatore e l’imprenditore, tra l’imprenditore e i fornitori, tra i dipendenti e l’imprenditore, tra l’imprenditore e gli investitori. Questa fiducia personale funziona finché il mercato è locale, le imprese sono piccole, i rapporti ripetuti nel tempo. Non funziona altrettanto bene in un mercato globale, dove i rapporti professionali sono spesso anonimi, tra un cliente in India, un fornitore in Manciuria e un’impresa a Montebelluna.
Dalle Ferrari ai mulini, gli italiani realizzano prodotti fantastici, ma non sanno costruire organizzazioni capaci di sopravvivere alla morte del fondatore, svilupparsi raccogliendo capitali all’estero, espandersi assumendo i migliori manager sulla piazza mondiale.
Nei miei periodici viaggi, mi capita spesso di partire la mattina presto da varie città italiane. Inevitabilmente incontro businessmen (e businesswomen) in partenza per i lidi più strani: Kiev, Bucarest, Hong Kong, Singapore... Sono giovani, spinti non solo dalla carenza di lavoro nel nostro Paese, ma anche dalle enormi opportunità offerte dall’Oriente. Se da un lato gioisco per il loro spirito di avventura, dall’altro mi rammarico per il fatto che troppe volte questa è una scelta obbligata. La mia generazione non è stata capace di costruire un Paese dove le imprese crescono e attraggono talenti. Il mio augurio per i prossimi quindici anni è che i nostri giovani possano sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione anche rimanendo in Italia.