Stefano Caviglia, Panorama 9/10/2014, 9 ottobre 2014
TAGLI BLUFF
È andata in frantumi alla prima prova dei fatti l’immagine gloriosa di Matteo Renzi in posizione di attacco con le forbici in mano: i 20 miliardi di tagli per il 2015 annunciati in pompa magna appena il mese scorso sono diventati meno della metà. Questo si evince dalla nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def) presentata il 30 settembre, dove non si parla espressamente di riduzione della spesa, e dalle indiscrezioni che filtrano ormai quotidianamente dalla squadra di governo: da alcune interpretazioni del Def sono scaturiti dai 5 ai 7 miliardi di tagli, fonti dell’esecutivo si spingono a ipotizzare una cifra fra i 7 e i 9 miliardi. I numeri precisi si conosceranno solo con la presentazione della legge di Stabilità di metà ottobre, perché il governo cercherà di conservare i suoi margini di manovra fino all’ultimo minuto, ma la strada è tracciata. Insieme con un grosso punto interrogativo sulla politica economica del governo: è davvero capace di tagliare la spesa oppure no?
Fin da quando si è insediato a palazzo Chigi, il 21 febbraio scorso, Renzi ha dedicato a questo fronte un proclama dopo l’altro. Auto blu, stipendi dei manager, acquisti nella pubblica amministrazione, senza dimenticare il campionario quasi inesauribile delle aziende pubbliche (la maggior parte in perdita) degli enti locali: tutto sembrava minacciato dalla sua scure. L’ultima spavalderia è dei primi di settembre, quando il presidente del Consiglio si tolse lo sfizio di correggere al rialzo il direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, che in un’intervista chiedeva prudentemente conto dei 17 miliardi di riduzione della spesa promessi per il prossimo anno e non ancora individuati. «Non 17, ma 20» rispose Renzi «perche intendo liberare risorse da investire nei settori strategici come l’istruzione e la ricerca senza aumentare le tasse».
Peccato che quei numeri fossero solo nella sua testa. La cifra di cui si parla ora, quella fra 7 e 9 miliardi, varia a seconda delle opzioni più o meno «interventiste» fra cui il governo sceglierà nei prossimi giorni. Una briciola, se si considera che il totale della spesa pubblica nel 2013 è stato di 827 miliardi e quella «aggredibile», ossia al netto di stipendi, pensioni e prestazioni essenziali, nella primavera del 2013 era stata stimata da un pioniere della spending review come l’ex ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda appena inferiore ai 300 miliardi.
Del resto, per farsi un’idea della ritirata del governo in materia di tagli, basta un’occhiata alle famose slide portate a marzo a palazzo Chigi dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, in cui si promettevano risparmi lordi per 7 miliardi nel 2014, 18 nel 2015 e addirittura 34 nel 2016. Solo la razionalizzazione di beni e servizi avrebbe dovuto dare il prossimo anno minori spese per 2,3 miliardi, 1 miliardo e 100 milioni la digitalizzazione della pubblica amministrazione e 800 milioni le sinergie fra i vari corpi di polizia. Che cosa è rimasto di tutto questo nella manovra che sta per presentare il governo?
Ben poco. I capitoli della «sforbiciatina» renziana sono più o meno gli stessi di cui si parla da mesi, ma sempre più striminziti: dall’accorpamento e dalla vendita delle aziende pubbliche locali, per cui Cottarelli aveva parlato a suo tempo di 3 miliardi di risparmi in tre anni, dovrebbero arrivare appena 300 milioni; 1 miliardo dalla riduzione della spesa per acquisti di beni e servizi (soprattutto sanità); altrettanto dalla riduzione delle agevolazioni fiscali, sommando quelle di cui godono le aziende e quelle concesse ai privati (con l’handicap ulteriore che questo, più che un taglio, andrebbe definito come un aggravio della pressione fiscale). C’è chi parla anche di una stretta sulla gestione di Inps e Inail, da cui deriverebbero alcune centinaia di milioni.
E tutto il resto? Come al solito è andato a finire sotto le due voci più classiche dei tentativi di correzione dei conti pubblici: il taglio lineare del 3 per cento alle spese dei ministeri (che dovrebbero ridurre la spesa tutti della stessa percentuale, in modo discrezionale e senza alcun disegno omogeneo) e la lotta all’evasione fiscale, in particolare quella dell’Iva, da cui il governo pare si aspetti un paio di miliardi. Tutto da verificare, però, l’effettivo risultato dei risparmi ministeriali, anche per l’opposizione degli stessi dicasteri: in teoria, tolti i 93 miliardi di spesa complessiva per il personale, il taglio del 3 per cento sui restanti 253 miliardi frutterebbe circa 7,5 miliardi. In pratica, si teme che possano arrivare molti meno soldi, secondo qualcuno anche meno di 3 miliardi, di cui forse 300 milioni dalla Difesa e circa 1 miliardo dalla Sanità.
Di più. Il Renzi spendaccione emergerebbe addirittura in modo inconsapevole dalle cifre (in genere puramente indicative e improntate all’ottimismo) contenute nel Def. L’ufficio studi dell’associazione di rappresentanza delle piccole aziende Unimpresa le ha messe sotto la lente di ingrandimento, giungendo a conclusioni disarmanti. «In cinque anni» afferma il suo ufficio studi «la spesa crescerà complessivamente di 40,7 miliardi di euro. Le uscite dello Stato saliranno costantemente, passando dagli 827 miliardi del 2013 ai quasi 870 del 2018. Aumenteranno i consumi intermedi (+8,3 miliardi), la spesa per le pensioni (+28,1 miliardi) e quella per gli stipendi pubblici (+1,3 miliardi) e tutte le altre spese correnti (+45,5 miliardi)». In particolare, l’analisi dell’Unimpresa sottolinea quegli 8,3 miliardi di aumento dei consumi intermedi, «vale a dire le uscite di ordinaria amministrazione che avrebbero dovuto essere oggetto di ampia riduzione con le varie spending review varate negli ultimi anni», tagli di spesa che l’associazione definisce laconicamente «impalpabili».
Il punto più importante messo nero su bianco nella nota di aggiornamento del Def, in realtà, è la decisione di alzare l’asticella del deficit nel 2015 dal 2,2 previsto finora al 2,9 per cento del prodotto interno lordo, rinviando dal 2016 al 2017 il pareggio di bilancio promesso a più riprese a Bruxelles e che richiederà il voto delle Camere per una deroga. È questo il pezzo forte della manovra, oltre che l’unica vera novità degli ultimi tempi, con l’inevitabile clausola di salvaguardia che farà scattare automaticamente un corposo aumento dell’Iva in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo. E poiché ogni decimale di punto in più corrisponde all’incirca a 1 miliardo e mezzo, i sette decimali che Renzi e il suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, hanno intenzione di regalare agli italiani e a se stessi (per ora senza il permesso della Commissione europea e della cancelliera tedesca, Angela Merkel) valgono 10,5 miliardi di euro da spendere: aggiunti ai 7-9 di tagli ipotizzati, equivalgono a un intervento da quasi 20 miliardi (di poco inferiore ai 23-24 miliardi accennati da Renzi ai sindacati di polizia nell’incontro del 7 ottobre). Guarda caso una cifra non lontana da quella di cui parlava il premier con tanta sicurezza meno di un mese fa.
L’obiettivo non sarebbe dunque eliminare gli sprechi e il «grasso in eccesso» nella Pubblica amministrazione, come tante volte sbandierato, ma solo ed esclusivamente immettere denaro fresco nell’economia, nella speranza che la scossa valga a far ripartire i consumi nel più breve tempo possibile. È esattamente quel che Renzi sta tentando di fare in questi giorni anche attraverso un’altra strada, proponendo l’anticipo anno per anno della quota relativa del trattamento di fine rapporto (Tfr) anziché versarlo ai lavoratori tutto in una volta al momento della liquidazione. Ancora una volta, più soldi da spendere per tutti, altro che tagli.
Non ha aiutato l’ostracismo nei confronti di Carlo Cottarelli, che in un’audizione in Senato nel marzo scorso garantiva 5 miliardi di tagli entro quest’anno. Basta un esempio: quella razionalizzazione di beni e servizi che avrebbe dovuto dare il prossimo anno minori spese per 2,3 miliardi. Maggiore efficienza significa un maggiore coinvolgimento della Consip, la società del ministero dell’Economia che gestisce l’acquisto di beni e servizi, grazie alla quale si risparmierebbero alcuni miliardi semplicemente accentrando la stipula dei contratti telefonici per tutti gli uffici pubblici o l’acquisto delle merci più diffuse di cui necessitano i comuni. Invece non accade.
Anzi, il governo è stato sconfitto dalla lobby dei comuni quando voleva ridurre la mole di 34 mila stazioni appaltanti riducendole ad appena 35 centrali di acquisto. L’Anci presieduta dal sindaco di Torino, Piero Fassino, nello scorso luglio spiegò al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che la norma era inapplicabile perché i comuni minori non avrebbero avuto tempo di riunirsi in un’unica grande centrale. Appuntamento rinviato al 2015, per ora.
Ammesso che in una mano Renzi abbia davvero le forbici, insomma, nell’altra tiene ben stretto il barattolo della colla per riattaccare da qualche altra parte quel che ha appena tagliato. Se ne deduce che Renzi ha preso buona nota di ciò che tutti i suoi predecessori hanno imparato a proprie spese, ovvero che i tagli, anche i più giusti e motivati, hanno sempre un costo politico, dal momento che chi li subisce se ne accorge subito mentre gli effetti positivi sull’economia si fanno sentire, se tutto va bene, nel corso dei mesi e degli anni. L’unico modo per non pagare pegno è, appunto, fare le due operazioni in contemporanea (se non addirittura in tempi rovesciati, come accaduto per gli 80 euro di sgravi fiscali, messi in busta paga prima ancora di trovare la copertura), individuando un versante di spesa fortemente mediatico su cui battere la grancassa.
Cottarelli a fine luglio capì che per lui non c’era più spazio: quando i possibili risparmi da lui individuati con tanta fatica stavano per essere messi a bilancio senza alcun sollievo per le finanze pubbliche, provò ad alzare la voce. «Se si usano i risparmi di spesa per aumentare la spesa stessa» scrisse nel suo blog «non potranno andare a ridurre le tasse sul lavoro».
La protesta servì a stoppare sul momento i propositi renziani di spesa, ma quello scontro ha incrinato definitivamente il suo rapporto con il presidente del Consiglio. Seguì la decisione di sciogliere il sodalizio con il ritorno di Cottarelli al Fondo monetario internazionale subito dopo la presentazione della legge di stabilità, ossia fra poche settimane. In agosto Renzi gli rispose indirettamente dicendo che la spending review non era una questione tecnica perché «la scelta di cosa tagliare e cosa non tagliare è la suprema scelta politica». Gli italiani sono ancora in attesa di questa «suprema scelta».
(Ha collaborato Francesco Bisozzi)