Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

L’ITALIA SENZA POTERE PERCHÉ NON C’È STATO


«L’auspicio di Massimo D’Azeglio è ancora lì, inattuato: “Fatta l’Italia, facciamo gli italiani”. E sono passati 154 anni»: è amaro Giulio Sapelli, docente di storia economica alla Statale di Milano, pubblicista fulminante e analista acuto delle stanche dinamiche socioeconomiche del presente. Lo è, una volta di più, nel saggio breve appena uscito: II potere in Italia (102 pagine, 9,90 euro), edito dalla fiorentina goWare. Come spunto, una lectio magistralis tenuta al Festival dell’economia di Trento, e a corredo contributi classici di Niccolò Machiavelli, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Friedrich Engels, Antonio Gramsci e Gaetano Mosca.
Sconsolate le conclusioni: «Benito Mussolini diceva che governare gli italiani, più che difficile, è inutile: ma lui partiva da una cultura lombrosiana. Io, lavorando sulla storia della cultura, rilevo che l’Italia non ha mai conosciuto una vera unificazione. L’unica, per dirla con Pier Paolo Pasolini, è stata quella del linguaggio, dovuta alla tv. Ma non basta».
E su Matteo Renzi, che oggi prova a sventolare il concetto di nazione, «è meritorio nell’aver sdoganato una sua idea di patria anche nell’area cattolica, forse perché ci vede una possibilità di marketing politico» osserva Sapelli «ma la vera prova del fuoco sul suo rapporto con il magmatico potere italiano sarà quando finalmente il Paese tornerà a votare e finalmente usciremo da questa semidittatura. Il voto europeo è altisonante, ma poco significativo».
Il problema è storico. Sapelli ricostruisce: «La nostra tardiva unificazione non ebbe mai legittimazione popolare e quindi non produsse quei fondamentali beni comuni che sono autorità e fiducia. Perche l’autorità senza fiducia né si pone né si può immaginare. Prevalsero il potere e la forza o la minaccia dell’uso della forza». Una sorta di psicoanalisi collettiva, insomma, che purtroppo spiega bene i mali di oggi: «Ci troviamo di fronte una presenza diffusa e alveolare, non egemonica e neppure compulsiva o costrittiva del potere. Inoltre, la maggior parte degli italiani soffre di una sorta di analfabetismo di ritorno, non sa scrivere neanche una lettera, a riprova del fatto che l’Italia come nazione culturale non esiste, diversamente per esempio dalla Francia, dove la République unifica tutti».
Da noi, sostiene lo storico «c’è uno Stato senza nazione, uno Stato che scricchiola, con una casta burocratica che blocca ogni cambiamento, periferica, inefficiente e inefficace, magistrati che esercitano ruoli surrogatori della politica».
Com’era possibile costruire, con queste premesse, un buon rapporto con le istituzioni europee? «Al contrario, l’ingresso in Europa ci ha spiazzati, perché non avevamo all’attivo neanche un vero federalismo» aggiunge lo storico: «Renzi ha fatto aderire il Pd ai socialisti europei, ma la cosa ha avuto poca sostanza perche il suo Pd è un partito acchiappatutto, dalla destra ai cattolici, l’unico elettorato che non può prendere è quello della sinistra estrema».

E con quale credibilità quest’Italietta politicamente disunita e sgangherata va all’attacco di Angela Merkel? «Be’, direi che tutta l’Europa sta soffrendo di una specie di pangermanesimo, l’istituzione europea sta peggiorando, dopo la riunione della Bce di Napoli i tedeschi hanno mortificato Mario Draghi attaccandolo da tutte le parti: è la prova che se parli senza poi fare, peggiori le cose, in questo la Francia avrebbe potuto essere più aiutata, il nostro premier ha detto cose giuste ma, come tende a fare sempre, non ha poi implementato nulla».
Per questo, rifocalizzandosi sul futuro prossimo del Paese, Sapelli vede luci e ombre nei tentativi di Renzi: «Bene gli 80 euro, male il Tfr. I primi sono stati un pezzo di politica economica, una detassazione come un’altra, chi li ha bollati di laurismo ha detto una sciocchezza. Invece mettere il Tfr in busta paga è una proposta ingenua che fa accapponare la pelle perché genera una catastrofe per le imprese a fronte di poco vantaggio per i lavoratori. Soprattutto mi sembra che apra un nuovo fronte di incognita pensionistica! E poi devo dire che è, o sarebbe, una misura in schietto stile peronista, fa pensare alla politica di Cristina Kirchner in Argentina. Significa nazionalizzare il risparmio dei lavoratori e delle imprese: e da un ministro come Pier Carlo Padoan, che ha girato il mondo, non me lo sarei aspettato».