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 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

PERCHÉ LA CLASSICA SUONA MEGLIO NEGLI USA


Sarà andata più o meno così: la signora Amy Wurtz, compositrice californiana, riceve una telefonata da Lawrence A. Johnson, critico musicale di Chicago. «Signora, vuole comporre un quintetto per noi? Anzi, per l’America». Il «noi» è la fondazione no profit American music project, ideata dallo stesso Johnson, già creatore del gruppo di siti web Thè classica! review con ramificazioni editoriali a Chicago, Boston, New York e in Florida. L’Amp ha lo scopo di sponsorizzare il patrimonio musicale americano e di commissionare, registrare e far eseguire nuovi lavori. La prima dell’opera richiesta a Amy Wurtz è stata suonata il 5 ottobre. Una seconda commissione sarà annunciata a dicembre.
Per i compositori made in Usa è un momento di rinnovata popolarità: Steve Reich, uno dei padri del minimalismo americano, allievo di Luciano Berio e vincitore del Pulitzer nel 2009, ha appena ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia. E se Reich non è un ragazzino (classe 1936), una generazione di giovani si sta facendo largo: Nico Muhly, 32enne di Manhattan, secondo il New York Times è il nuovo Beethoven. Jared Miller, 25enne di Los Angeles, appassionato di Federico Fellini, è stato il compositore del brano per i giochi olimpici invernali di Vancouver, 2010 Traffic Jam. E Kevin Puts, classe 1972, nel 2012, con la sua prima opera Silent Night, ha vinto il Pulitzer.
A facilitare l’ascesa di questo movimento ci si è messa anche la tecnologia: Spotify (e con lui i cugini Deezer e Cubomusica) sembra essersi accorto della musica classica, e negli ultimi mesi ha inserito un catalogo paragonabile a quello rock.
Prendiamo dunque lezioni da un paese che ha cominciato a produrre classica a fine ’800, ma già la identifica come una bandiera; l’Italia, con ben altra tradizione, è invece impantanata in un dedalo di problemi, fra carenza di fondi, confusione di leggi e un’infinità di sigle, fondazioni lirico-sinfoniche, istituzioni concertistico-orchestrali, teatri di tradizione, conservatori, scuole e licei musicali. Il Teatro dell’Opera di Roma è riuscito a far scappare uno dei direttori d’orchestra più richiesti al mondo, Riccardo Muti, inamovibile a Chicago. Nicola Luisotti ha un piede fuori dalla direzione musicale del San Carlo di Napoli ma è ben saldo alla guida della San Francisco Opera. Gianandrea Noseda, dopo una serie di risse con la sovrintendenza, ha lasciato il teatro Regio di Torino. Daniele Rustioni sta facendo traballare la sua sedia al Petruzzelli di Bari: per questioni di bilancio, gli hanno cancellato il Trittico di Puccini con regia di Damiano Michieletto, punta di diamante del 2014.
È vero che le fondazioni, negli Stati Uniti, sono una potenza: valgono quasi 1.000 miliardi di dollari, corrispondono al 3,9 per cento del Pil e garantiscono 9 milioni di posti di lavoro. Ma anche in Italia c’è un terzo settore, cui le fondazioni appartengono: un mondo che muove 67 miliardi di euro, circa il 4,3 per cento del Pil nazionale, e offre 500 mila posti di lavoro. Spotify e gli altri funzionano benissimo anche in Italia. Anzi, sono l’unica cosa che funziona.