Michela Proietti, Corriere della Sera 10/10/2014, 10 ottobre 2014
PARLA ROSARIO DAWSON. «LA PARTE MIGLIORE DI ME È LA RASATURA DELLA TEMPIA SINISTRA»
«Non riesco a pensare a un mondo senza uomini. La loro funzione è importantissima, credo che dovremmo portarli dalla nostra parte, sarebbe più facile ottenere ciò per cui lottiamo». L’elemento maschile è predominante in Rosario Dawson: si intuisce da piccoli dettagli, contenuti in un corpo incredibilmente attraente. Nulla è quello che sembra: a partire dal nome, che pare un errore di trascrizione anagrafica e invece è proprio un nome da donna. «Si chiamava così anche mia nonna, viene da Rosarium, è spagnolo». Indossa scarpe stringate Lanvin e un paio di ripped jeans. Chi l’ha vista nuda nel film «In trance» avrebbe altre risposte da dare. «Ma la parte migliore di me è la rasatura della tempia sinistra», dice mentre accarezza la sua chioma half hawk , metà della testa rasata e l’altra metà naturale. Non esistono conflitti di genere: tutto è fluido in questa sensuale trentacinquenne contesa da registi come Spike Lee e Oliver Stone che ha azzerato le differenze grazie al suo impegno sociale. «Nelle mie associazioni in difesa delle donne coinvolgo sempre i maschi. Solo in questo modo possiamo vincere la violenza, facendo capire agli uomini che ci sono molti uomini che odiano chi fa male alle donne».
Gli spintoni e la scala «salvavita»
La storia di Rosario è un copione scritto da uno sceneggiatore formidabile. La sua stessa vita è il racconto di uomini che deludono e uomini che riscattano gli errori degli altri. Greg, il padre putativo, è stato il suo primo eroe. «Ha sposato mia madre Isabel abbandonata da mio padre, mi ha cresciuta e mi ha protetta. Del papà biologico non ho mai sentito la nostalgia, non potrei, non lo conosco». Sullo sfondo della storia c’è la città di New York e una casa occupata nel Lower East Side di New York. «Sono cresciuta con i teli di plastica alle finestre».
Tra i primi ricordi c’è la scala «alternativa» costruita dalla madre, per evitarle di incontrare gli ubriachi del sottoscala, un posto «creepy» dice lei, incredibilmente spaventoso. «Ho imparato a convivere con gli spintoni e anche con qualche mano sul sedere. Mio fratello Clay a volte tornava a casa con un occhio nero. Ma nella mia famiglia trovavo tutta la sicurezza del mondo».
Dalla nonna, Rosario Isabel, ha ereditato l’impegno nel sociale. «Faceva la sindacalista mentre lavorava in una fabbrica di vestiti». Dalla madre di origini portoricane e afro-cubane, la bellezza («è alta un metro e ottanta») e l’arte di cavarsela. «È capace di fare tutto, persino l’idraulico. A 16 anni è rimasta incinta e la cosa strana è che tutti pensavano che sarebbe accaduto anche a me, in un certo senso ho cambiato le pagine di un destino già deciso da altri». Crescere in una famiglia così «giovane» ha avuto dei vantaggi. «Mi sentivo una di loro, quando arrivavano gli amici dei miei mi sforzavo di fare domande intelligenti. Se mi facevano notare che era ora di andare a dormire mi opponevo: io sono come voi, dicevo».
La bellezza e l’inferno Hollywood
«Hey, do you want to be in my movie?». Una domanda di uno sconosciuto e la vita cambia: alla stessa età in cui la madre rimane incinta, per Rosario si aprono le porte di Hollywood. Larry Clark, che aveva scelto il baraccone fatiscente dei Dawson per girare il film «Kids» (quello che ha reso famosa anche Chloe Sevigny), nota Rosario fuori di casa e la scrittura nel cast. «Direi che non sono stata sempre bella, dato che nessuno mi invitava fuori. Ogni tanto mi raccontano che qualcuno della mia ex scuola dice di essere uscito con me. Io rispondo: ma che bugiardo, ero invisibile e tu non mi hai mai considerata!». Dopo «Kids» arrivano altri ruoli, con Oliver Stone («Alexander»), Spike Lee («He got game»), Danny Boyle («In Trance»), Chris Columbus e Quentin Tarantino. «Hollywood un inferno? Ha fatto di me un’attrice, casomai direi il contrario. L’inferno è trasformare la celebrità nella tua stessa vita, un meccanismo che somiglia a quelli che pensano alla vecchiaia come a una tragedia. Io ho i miei interessi e i miei eroi: sono quelli che aggiustano le case nella mio vecchio quartiere o che convincono la comunità latina a votare».
Il successo l’ha aiutata a realizzare i sogni degli altri: al padre Greg, per i 50 anni, ha regalato un’Harley Davidson, il fratello Clay si è potuto iscrivere al college. La madre, sull’orlo della depressione, è partita con lei in Sierra Leone. «Dovevamo rimanere una settimana, siamo state tre mesi. Mi ha aiutato a trascrivere elettronicamente i certificati delle persone sieropositive. Sierra Leone significa Terra del Sorriso» .
Le amicizie (che non cambiano)
«Rosario ha sempre avuto un cuore enorme, già da piccola si occupava dei problemi di tutti. È una new yorker». Abrima Erwiah è sua amica dai tempi dell’infanzia a New York. Insieme condividono un progetto di moda e solidarietà: si chiama Fashion Rising Collection e con parte dei ricavati sostiene le donne africane vittime di violenze. Nonostante la celebrità di Rosario, sono rimaste unite. «Le mie amicizie sono le stesse di quando ero piccola. Abrima era pazzesca, parlava già le lingue e sapeva ciò che voleva fare». Rosario Dawson ha continuato a studiare dopo il successo: se non fosse diventata una diva, oggi sarebbe una biologa marina. Spike Lee l’ha invitata alla New York University per parlare de «La 25°ora», il film che le ha dato la vera celebrità. Ha lavorato con gli attori più pagati e i registi migliori. Del suo ex Danny Boyle dice con un sorriso: «Sì è finita, ma siamo ottimi amici. I figli? Vorrei non parlarne, possibile?». Le piacerebbe lavorare per Almodóvar e racconta che la gente ancora la ferma lungo la strada per il film «Sette anime» di Gabriele Muccino. «Un uomo diretto, virile, fine, intelligente, quasi maniacale: raggiunge un risultato sempre migliore di quello che si è prefisso. Mi ricordo che diceva a Will Smith “non fare Will Smith», gli urlava in mezzo a un campo d’orzo “ti voglio nudo e vulnerabile come un neonato”. Ha fatto un film capace di far piangere gli uomini, e il miracolo è che nessuno si vergogna di dire che con quel film ha pianto».