Giorgio Ponziano, ItaliaOggi 10/10/2014, 10 ottobre 2014
VELTRONI, RENZI STA FACENDO BENE
«Matteo Renzi e la sua squadra stanno facendo bene e meritano di essere sostenuti»: Walter Veltroni è alla Johns Hopkins, università americana per futuri diplomatici e funzionari globalizzati che ha un’unica sede europea, a Bologna. È stato invitato su iniziativa di Filippo Taddei, il giovane economista chiamato da Renzi e che tanto sta incidendo sulla politica economica del governo, a cominciare dal jobs act. Egli è docente in questa università, che organizza cicli di conferenze sulla politica italiana e internazionale. E a spiegare la politica italiana attraverso la figura di Enrico Berlinguer è arrivato Veltroni, che sul leader del Pci ha girato un documentario.
Ma nella discussione, Veltroni ha dovuto rispondere anche a domande sull’attualità, nonostante una sua premessa: «Da quando mi sono dimesso da segretario Pd ho volutamente scelto un profilo basso, senza intervenire nel chiacchiericcio politico, nonostante le tante sollecitazioni. Questo non mi ha impedito di partecipare attivamente anche all’ultima campagna elettorale, ma per dare una mano al mio partito e senza appassionarmi alle sue vicende interne. Bisognerebbe avere la forza di guardare oltre il proprio ombelico, interrogandoci su quale futuro e quindi proponendo strategie anche a medio e lungo termine».
Perché lei, giovane segretario Pd e in precedenza vice-presidente del consiglio (nel governo Prodi) non ha cercato di avviare quella spinta al rinnovamento che Renzi sta ora cercando di imprimere?
«Per motivi di contesto e di tempi. Il contesto oggi è diverso, allora c’erano Silvio Berlusconi e il centrodestra in auge. Portai il Pd al 34% contro ogni pronostico che assegnava assai meno ma non fu sufficiente e io rimasi segretario del partito appena un paio d’anni, dal 2007 al 2009, che potevo fare? Poi è vero che io non ho saputo avere la «cattiveria» di Matteo, cosa che mi sono sempre rimproverato come un difetto. Se ora un sogno si è avverato, quello di un partito a vocazione maggioritaria, il merito è suo: il Pd non deve limitarsi a riempire il proprio recinto per poi unirlo al recinto dei vicini, il Pd deve saper parlare a tutti gli italiani».
Oggi Renzi, a cui va il suo appoggio, ieri Berlinguer, con cui lei ha lavorato: non ci sembra molta continuità tra questi due leader_
«Berlinguer –risponde- è stato un grande leader che seppe traghettare il Pci verso un’ottica europea entrando in conflitto con Mosca e si trattò di uno strappo la cui portata, allora, non fu interamente percepita. Oggi possiamo leggere i dispacci dei servizi segreti dell’ex- Germania dell’Est e verificare quanto astio e opposizione ci fosse verso il segretario del più grande partito comunista europeo che non soggiaceva ai diktat e che arrivò a flirtare con Alexander Dubcek e a proporre il compromesso storico, cioè di partecipare a un governo insieme alla Dc. Una volta si recò in visita in Bulgaria, a Sofia la vettura su cui viaggiava fu investita da un autocarro militare e solo per un miracolo si fermò contro un palo e non precipitò nel burrone. Al ritorno, Berlinguer disse ai familiari che riteneva si fosse trattato di un attentato. Lui operava in un mondo diviso in blocchi e, quando disse che si sentiva più protetto dalla Nato che dal Patto di Varsavia, in Oriente successe il finimondo. Un altro merito di Berlinguer fu quello di avere traghettato il Pci dall’antieuropeismo a una posizione favorevole alla costruzione dell’Europa. Impossibile fare paragoni con l’oggi».
Per Veltroni il Pd non è l’erede del Pci, anche in politica si chiudono capitoli e se ne aprono altri senza che necessariamente vi sia continuità.
Dice: «Berlinguer e Moro si ritrovarono a pensare che l’Italia era bloccata dall’antagonismo tra Dc e Pci, occorrevano riforme e un cambio di passo alla guida di un Paese in stagnazione e con l’inflazione a due cifre, l’autunno caldo e le manifestazioni degli studenti erano il segnale di un malessere crescente, inoltre vi era la paura che qualcuno volesse tentare un colpo di Stato come quello appena avvenuto in Cile e le bombe che venivano messe qui e là preoccupavano non poco. Di qui la decisione di avviare il compromesso storico, Berlinguer arrivò perfino ad accettare che quel governo fosse presieduto da Giulio Andreotti, condizione perché la Dc non si spaccasse. C’erano malumori dei militati da una parte e dall’altra, la destra Dc remava contro, gruppi di giovani del Pci lasciavano il partito per l’autonomia operaia. Ma la strategia del compromesso storico andò avanti e il Pci si astenne su un governo monocolore Dc guidato da Andreotti, premessa del futuro governo Dc-Pci. A questo punto (marzo 1978) venne rapito Aldo Moro e cambiò il corso della politica italiana. Sei anni dopo, Berlinguer si sentì male durante un comizio a Padova e non ci fu nulla da fare. Con la sua morte finì, in pratica, il Pci».
L’assassinio di Moro come spartiacque del dopoguerra politico italiano, ma per Veltroni, attorno a quella vicenda, c’è stata anche una volontà occulta. Lui non crede che dietro ai terroristi ci fossero burattinai ma piuttosto che «Moro è stato lasciato morire, coloro che dovevano trovarlo, in realtà non volevano arrivare a lui. Ben 11 sui 12 componenti l’unità di crisi al ministero degli Interni per gestire la vicenda erano iscritti alla P2 e contro l’eventualità del compromesso storico. E anche a livello internazionale c’era chi non voleva l’incontro Dc-Pci e quindi l’uscita di scena di Moro faceva comodo».
Il rapimento di Moro fu un grave colpo anche contro il Pci.
«Sì, Berlinguer temeva un colpo di Stato e col rapimento Moro accadde qualcosa di simile, anche se con modalità particolari, un evento abnorme in grado di scompaginare, infatti il compromesso storico andò in soffitta e arrivarono Craxi e il pentapartito, che in 10 anni raddoppiarono il debito pubblico, se oggi ci troviamo in questa disastrata situazione lo dobbiamo a quei 10 anni. E’ comunque vero che l’occasione storica per la costruzione di un grande partito socialdemocratico, unificando Pci e Psi, si perse per colpa del Pci che si schierò coi carri armati sovietici che invadevano l’Ungheria nel 1956. Se il Pci avesse avuto la forza di rompere col Pcus sarebbe nato un partito in grado di contendere il potere alla Dc».
Renzi, a differenza di Veltroni, non ha mai avuto in tasca la tessera del Pci. Esperienze diverse che incidono sul tipo di approccio al potere. Tanto che Veltroni spiega agli studenti della Johns Hopkins che la formazione del consenso è meglio di un uomo solo al comando, una critica alla politica dell’immagine e quindi anche al più esasperato renzismo: «Non dobbiamo cadere nel feticcio della velocità, i tempi della democrazia sono necessariamente non immediati perché presuppongono discussioni, valutazioni e voto. Il che non significa ovviamente la palude dell’indecisione... Guai a una società che perde la memoria del proprio passato e vedendo un futuro incerto si affida a un salvatore della patria».
Giorgio Ponziano, ItaliaOggi 10/10/2014