Paolo Russo, la Repubblica 9/10/2014, 9 ottobre 2014
IN CHE MODO IL MART DI ROVERETO SI PREPARA A RIEVOCARE LA GRANDE GUERRA (DIPINTI, INSTALLAZIONI, CIMELI, FOTO)
Come una madre che racconta al figlio l’orrore della violenza non per impaurirlo ma perché ne impari volto e prezzo. Senza mai indulgere alla pornografia della pura superficie, al mattatoio del realismo più morboso. Una narrazione in forma di poesia e visione: Méliés invece dei Lumière. Capace anche perciò di uscire indenne dalla paludosa coazione a ripetere degli anniversari, nel caso quello della Grande Guerra, di cui il progetto ideato e guidato dalla direttrice del Mart Cristiana Collu – che l’ha poi realizzato con storici e i curatori Nicoletta Boschiero, Saretto Cincinelli, Gustavo Corni, Gabi Scardi, Camillo Zadra – sceglie per giunta, ad evitare ogni equivoco, l’anno di inizio mondiale, il 1914, e non il 1915, anno dell’entrata nel conflitto dell’Italia. Un progetto fortemente antropologico riferito sì alla Grande Guerra, ma pure a tutte le guerre: all’archetipo del conflitto che dalla notte dei tempi oppone uomini e culture. Come ricorda il titolo brechtiano: «la guerra che verrà/non è la prima». E se azzera la retorica, il progetto non scorda quanto forte sia tutt’oggi il legame dei trentini, in specie di queste valli dove persone e luoghi ancora ne parlano, con la Guera Granda, come la chiamano, mentre nel resto d’Italia è da decenni un solitario fantasma senza più voce. Un fatto tanto immane (le stime più accreditate parlano di 15-17 milioni di morti e 20 milioni feriti) da aver cambiato per sempre la storia e il mondo – nella geopolitica, negli equilibri economici, nelle tecniche di distruzione di massa e nel conseguente sviluppo industriale, nella vita infine d’ognuno ogni giorno. Ma ormai privo della parola di chi c’era e quindi negletto da cultura e politica nel polveroso baule di una povera epica in bianco e nero che, malgrado gli incandescenti furori interventisti e neutralisti e la criminale retorica dell’epoca (basterà ricordare d’Annunzio e i Futuristi), non infiamma più gli animi di nessuno. Dentro a queste molteplicità La guerra che verrà colloca quelle, vaste, varie e d’alta qualità, più squisitamente storico-artistiche. Una costellazione affidata al sestante di chi osserva perché ci tracci la sua rotta. Fra le stupefacenti matite a colori di Sironi, le prodigiose animazioni di Kentridge e quelle noir di Yael Bartana, la straziante prestanza dei cavalli morti dell’installazione di Belinda de Bruyeckere e la composta intimità ordinatrice di quella che Fabio Mauri ha realizzato con oggetti di guerra. E ancora, il colorismo giocoso dei planisferi di Boetti e quello cupo delle mimetiche, l’inesauribile fantasia del genius loci Depero, il lutto come speranza di memoria di Boltanski, l’umanissima, minimale poesia dei soldatini di carta che vanno sottoterra di Paolo Ventura, le grandi, inedite xilografie all’antica di Sandow Birk sull’Iraq, dove Herzog ha filmato la sua versione dell’apocalisse, i grotteschi generali di Baj, i drammatici calchi di foto di Pascal Covert, la vita di coppia in tempo di guerra delle foto di Gohar Dashti, i taccuini e le tele dal fronte di Gagliardo, Bucci e Funi, fino alla materia ustionata di Burri e molto altro ancora. Anche una tale confluenza nasce dalla curatela collettiva e plurale voluta da Collu. Che trasforma il percorso in un flusso segnato da stazioni, vie d’uscita e rientri, assonanze e dissonanze di temi, prospettive e medium. Difficile rinchiudere La guerra che verrà nella categoria “mostre d’arte”: è in effetti di più, o forse solo una nuova versione di ciò che siamo abituati a definire così. Un mixed media concettuale prima ancora che linguistico ed estetico, in cui storia e storia dell’arte vanno in cerca d’un “teatro del mondo” mescolando le proprie carte e strumenti. Prendendosi la responsabilità di provare a rendere misurabile un evento tanto smisurato come la guerra. Di indicare una o cento verità possibili. Lo si vede già nella biblio-filmografia e nelle citazioni che Marcello Fois ha trascritto da romanzi (Remarque, Lussu etc., curiosa l’assenza di Céline) sulle pareti delle scale che vanno al primo piano, dove le tavole sinottiche traducono in cifre la Grande Guerra. Mentre sulle pareti del grande emiciclo di Botta sfilano elmetti, bauli, scarponi, gavette, funi e tanti altri oggetti restaurati fin dal 2009 dalla soprintendenza ai Beni Archeologici di Trento per il progetto “Punta Linke”. Al secondo piano, in dialogo con i tanti materiali d’epoca nelle teche, le opere d’arte propriamente dette (ricordando che la mostra pone più d’una domanda pure su cosa siano). Una sorta di placenta nella quale gli stimoli variamente emessi da opere e reperti arrivano, ma come fossimo protetti. Nulla pare far più paura. Né la ferocia del banchetto fotografico che gli austriaci allestirono intorno al cadavere di Cesare Battisti che tanto sgomentò anche Karl Kraus, né, da Gaza all’Iraq e l’Afghanistan, quella hi-tech e televisiva nostra contemporanea. Tutto reclama attenzione, la speranza si coltiva con la coscienza. Stiamo osservando una bomba, però, almeno al Mart, disinnescata. L’importante è imparare a ri-conoscerla. Anche quando – cioè sempre – viene lanciata nascosta nella santità d’un qualsiasi dio, bilancio e vessillo.
Paolo Russo, la Repubblica 9/10/2014