Tino Oldani, ItaliaOggi 8/10/2014, 8 ottobre 2014
UNA RICERCA SUL CARO TARIFFE (UNA RENDITA VERA) DELLE AUTOSTRADE DÀ RAGIONE A GIULIO SAPELLI SULLE «PRIVATIZZAZIONI CLEPTOCRATICHE»
Ma davvero in Italia c’è troppo Stato nell’economia? Il Corriere della sera ne è talmente convinto che ieri ha dedicato a questa tesi l’editoriale firmato da Daniele Manca. Titolo: «C’era una volta Mediobanca». Svolgimento, finita l’epoca di Enrico Cuccia, i grandi gruppi privati che negli anni Novanta avevano «alimentato la speranza di essere partecipi e protagonisti della svolta liberale e di mercato», hanno fallito l’impresa e ceduto il passo alla Cassa Depositi e Prestiti. Conclusione: «È la resa, si spera non definitiva, alla sempre più forte presenza dello Stato nell’economia». Una tesi convincente? Direi di no. E, come prova, segnalo la straordinaria intervista sui «poteri forti» che ItaliaOggi, con il bravissimo Goffredo Pistelli, ha fatto ieri a Giulio Sapelli, autorevole storico dell’economia. La tesi di Sapelli è che in Italia i poteri forti non esistono, «sono una mucillaggine». E questo perché «dopo la distruzione dell’impresa pubblica, non c’è stata la sostituzione da parte dei grandi gruppi privati, le nostre sono state privatizzazioni cleptocratiche, che hanno portato solo alla distruzione della grande impresa». Un’analisi spietata, ma purtroppo veritiera, e dunque per nulla assolutoria per i grandi gruppi privati, coinvolti in «privatizzazioni cleptocratiche».
L’accusa è pesante. Sapelli non fa nomi. Ma è difficile non pensare alla Telecom dei cosiddetti «capitani coraggiosi». Se poi andiamo a leggere una ricerca dell’economista Giorgio Ragazzi, qualche dubbio viene sollevato anche sulla Autostrade, passata dall’Iri al gruppo Benetton, con risultati tutt’altro che esaltanti. Lo studio di Ragazzi, ex allievo di Francesco Forte, in passato economista presso il Fondo monetario internazionale ed ex direttore esecutivo della Banca mondiale, è sul sito lavoce.info e mette a fuoco l’opacità dei rapporti che, da tempo, caratterizza i rapporti tra le società concessionarie di autostrade e i vari governi, compreso l’attuale. Un rapporto dove quello dei padroni delle autostrade continua a essere un «potere forte», a fronte di governi sottomessi, smentendo, almeno in questo settore, la tesi di Sapelli.
Qualche numero aiuta a capire. «Nel 2012-13 il traffico è diminuito del 10 per cento», scrive Ragazzi, «ma, grazie agli aumenti tariffari, gli introiti complessivi da pedaggi sono persino lievemente aumentati, e i profitti pure. Dal 2010 i pedaggi (in media) sono cresciuti del 15 per cento, cioè il doppio dell’inflazione». Più avanti: «Nel 2013 le concessionarie hanno registrato introiti di 4.900 milioni di pedaggi e registrato utili di 1.100 milioni, ma gli investimenti ammontano a poco più di 900 milioni. Autostrade per l’Italia, la maggiore, ha avuto un flusso di cassa operativo di 1.230 milioni, ma ha investito solo 470 milioni (dato della Vigilanza). Paghiamo un altissimo scotto sulla mobilità, a fronte di investimenti modestissimi».
Per legge, il rincaro delle tariffe autostradali dovrebbe essere parametrato ai «costi ammessi» (investimenti). Ma l’applicazione del criterio, scrive Ragazzi, «è largamente discrezionale». Con un’inflazione ormai prossima allo zero, “i cospicui aumenti dei pedaggi (3,91% nel 2013 e 3,9% nel 2014) appaiono sempre più inaccettabili, e imbarazzanti per il governo». Tanto più che anche gli interventi più recenti da parte dell’esecutivo sembrano volti a garantire più i profitti delle concessionarie che non la tasca gli utenti. Il decreto Sblocca Italia, osserva Ragazzi, in vista di alcune concessioni in scadenza, prevede di accorparle, allungandone la durata: «Il futuro della rete sarebbe così cristallizzato per i prossimi due decenni e oltre, assicurando la perpetuazione delle ricche rendite del settore».
La svolta liberale e di mercato, di cui parla Manca sul Corsera, fa a pugni con la realtà descritta da Ragazzi: «Se guardiamo alla storia, gli azionisti non hanno mai versato capitali nelle concessionarie, se non per importi irrisori: tutto è stato finanziato da debiti, poi rimborsati con i proventi dei pedaggi. Per le concessionarie non esistono investimenti a rischio: la remunerazione in tariffa è garantita, e c’è sempre la possibilità di richiedere il riequilibrio del piano economico e finanziario, anche quando si sbagliano di molto le previsioni«.
In sostanza, spiega la ricerca, «all’inizio di ogni periodo regolatorio (ogni cinque anni), su proposta della concessionaria, si definisce un piano economico-finanziario che prevede incrementi di tariffa tali da assicurare una congrua remunerazione sul capitale investito. Il rendimento assicurato è di 4 punti sopra quello medio dei Buoni del Tesoro decennali». Conclude Ragazzi: «Un rendimento davvero ottimo per i tempi che corrono, considerato anche che si tratta di investimenti senza rischio». Ecco il punto vero: «senza rischio». Proprio a questo miravano i gruppi privati che, grazie a Romano Prodi e a Carlo Azeglio Ciampi, fecero la parte del leone nell’assalto alle aziende di Stato, assicurandosi soprattutto quelle che, grazie alle tariffe, avrebbero assicurato una rendita eterna. «Privatizzazioni cleptocratiche» dice ora Sapelli: una definizione perfetta.
Tino Oldani, ItaliaOggi 8/10/2014