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 2014  ottobre 08 Mercoledì calendario

DIBATTITO SUL TESTO CHE NON C’È

La bagatella sta dentro moderni sistemi di comunicazione: alle 12.08 le intenzioni di Matteo Renzi sono consacrate da una notizia Ansa, e cioè sul Jobs act si porrà la fiducia «perché bisogna approvare le riforme». Quattro ore e ventidue minuti più tardi, all’apertura della seduta al Senato, la comunicazione non era ancora arrivata. Lo si è scoperto perché il capogruppo dei cinque stelle, Vito Petrocelli, aveva chiesto che senso ci fosse nel proseguire la discussione di un testo già morto; e alla povera vicepresidente Valeria Fedeli, costretta all’ossequio della liturgia, non restava che arrendersi: «A noi non ha detto niente nessuno, si va avanti».
Ora, questa è tutta una questione di procedura, ma la spiegherò in poche righe: il Senato ieri aveva da dibattere attorno alla legge delega di riforma del mercato del lavoro, cioè attorno a un testo definito; ma siccome si sa quanto durano certe dispute, e siccome Renzi non ha tempo da perdere col Parlamento, il governo ha preparato un maxiemendamento, cioè un testo nuovo che sostituisce quello vecchio e sul quale porre la fiducia: il modo migliore per portare a casa la riforma in due ore.
È stato abbastanza suggestivo assistere a un pomeriggio di interventi e controinterventi sul nulla, paradosso che non è sfuggito ai senatori. Uno della Lega, Sergio Divina, ha avvertito che toccava «parlare al vento di cose che forse non esistono più». E sul punto è stato definitivo Luciano Uras di Sel: «Noi parliamo per migliorare un testo, solo che il testo non c’è, e quindi che cosa dobbiamo migliorare? Siamo senatori, non Mago Merlino».
Le bizzarrie non erano mica finite lì. Sempre il grillino Petrocelli, nel suo intervento, aveva proposto un patto al governo, una cosa buttata lì giusto per provarci, e cioè ridurre gli emendamenti a qualche decina, i più importanti, perché almeno quelli fossero discussi. Lo stesso ha fatto subito dopo Loredana De Petris di Sel: «I nostri emendamenti sono 300-350, ma siamo disposti a conservarne 40 o 50». In pratica: non è di ostruzionismo che vogliamo morire.
Ma la premura di Renzi è la nuova unità di misura, e secondo i cinque stelle (e non soltanto loro) è la premura di arrivare al vertice europeo di oggi con lo scalpo in mano. Così, in un giorno di festival del surreale, il grillino Maurizio Buccarella comunicava ironico la nuova scaletta: «Adesso aspettiamo». Che cosa? «Che il governo metta la fiducia e che poi la tolga» per discutere gli emendamenti.
Persino il democratico renziano Francesco Russo ammetteva che «la situazione è un po’ assurda, anche se da quello che ho capito il nuovo testo cambierà di poco: è il sistema per mettere la fiducia. Quindi è un’assurdità logica». O una logica assurda perché non è finita qua: il socialista Enrico Buemi centrava il problema rimarcando la distanza folle fra la rapidità richiesta oggi all’esecutivo e la violazione sistematica di regole datate ma in vigore, le regole della democrazia parlamentare.
Per dire: ieri il decreto sul processo civile doveva essere discusso in commissione giustizia, ma la commissione è slittata perché intanto si doveva discutere in aula di una legge delega che non è soltanto meno urgente di per sé, ma ormai superata da questo benedetto maxiemendamento, di cui si avranno i dettagli soltanto stamani.
Roba da mal di testa, lo sappiamo. Anche perché a complicare le cose è poi arrivato Maurizio Gasparri, secondo il quale mettere la fiducia su una legge delega presuppone una certa creatività. Ma è faccenda troppo complicata da infliggere al lettore. Semmai Gasparri era curioso di sapere come sarà la nuova norma su licenziamenti e reintegri (articolo 18), perché «se il reintegro vale anche per motivi disciplinari, allora vale anche per Giovanni Barozzino di Sel, che fu licenziato a Melfi con l’accusa di aver bloccato la produzione. Intanto lo hanno reintegrato al Senato, anche se qui presto si chiude, era meglio reintegrarlo alla Camera...». Vabbè, ieri è andata così. Oggi la fiducia.