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 2014  ottobre 04 Sabato calendario

QUANDO I GENITORI RESTITUISCONO I BAMBINI


Due persone che si amano e vogliono diventare genitori, desiderano essere chiamati “mamma” e “papà”, e perciò compilano decine di documenti e aspettano un bambino, il loro bambino, anche per lunghi anni. Finalmente arriva: lo accolgono a casa, lo fanno diventare parte della famiglia e della società. Ma poco dopo, stremati, lo respingono. E lo restituiscono al mittente.
I bambini restituiti sono la triste conseguenza di una seria difficoltà: fare i genitori, adottivi per di più. Ci si trova ad avere a che fare con minori che mettono alla prova: provocano, mentono, sono violenti. Molte volte sono ragazzi con alle spalle una storia buia e confusa. Molti sono cresciuti in istituti, sono stati dati in affido e si sono affezionati diverse volte a qualcuno, per finire di nuovo soli. Un’altalena emotiva a momenti straziante.
Ma quanti sono davvero i bambini restituiti? Sfortunatamente ci sono pochi dati ufficiali. Nel 2003, però, la Commissione per le adozioni internazionali ha svolto un’approfondita indagine dalla quale è risultato che le adozioni fallite oscillavano tra l’1 e 1’1,8 per cento. Inoltre ha rivelato che un buon 26% di esse riguarda i bambini di età compresa tra i 15 e i 18 anni. Sembra, infatti, confermarsi la difficoltà d’instaurazione del doppio processo di genitorialità e filiazione quando i minori hanno un’età in cui la loro individualità appare più definita e «il timore di non corrispondere alle aspettative dei genitori adottivi spesso si manifesta con modalità fuorvianti quali crisi di rabbia e di aggressività», come scrive Caterina Adami Lami, professoressa al Dipartimento di pediatria dell’Università degli studi di Firenze. «Gli adolescenti richiedono per questo una particolare consapevolezza, preparazione e impegno da parte dei genitori adottivi», continua la dottoressa, «devono essere una coppia unita e solida, capace di conservare la sicurezza nelle proprie capacità genitoriali anche di fronte ad atteggiamenti trasgressivi e ribelli e di contenere il disagio di questi ragazzi che, al di là degli atteggiamenti provocatori, sono molto fragili e insicuri». L’adolescenza diventa quindi uno specchio che riflette e amplifica le fragilità di un sistema incrinato.
I fattori che possono portare al fallimento di un’adozione sono molteplici: i traumi precedentemente subiti dal bambino, la disponibilità dei genitori ad accettare un bambino “non perfetto” come l’avevano sognato, ma forse su tutti, la solitudine della famiglia stessa. La legge, infatti, non prevede per i servizi sociali l’obbligo di accompagnamento nella fase di inserimento nel nuovo contesto famigliare, soltanto la possibilità di farlo nel caso in cui lo si chieda. Ma il più delle volte è proprio chi non lo chiede in genere ad aver bisogno di aiuto. «È auspicabile che il servizio crei da subito un rapporto di stima e di fiducia che permetta, qualora insorgano problemi, come di solito avviene nell’adolescenza, il ritorno della famiglia al servizio», scrive Melita Cavallo, allora presidente della Commissione per le adozioni internazionali, nel medesimo report. «Senza dubbio molti degli insuccessi registrati si sarebbero potuti evitare se la coppia fosse stata seguita, affiancata, sostenuta, orientata, se insomma avesse avuto un ancoraggio forte e sicuro e se nel periodo dell’adolescenza vi fosse stato un ricorso tempestivo al servizio».
Ma i servizi sono in Italia una realtà composita: oltre all’assistente sociale e allo psicologo, troviamo, a seconda dei casi, il neuropsichiatra infantile, il terapista della riabilitazione, il pediatra, l’assistente sanitario e altri ancora. Nell’adozione internazionale sono coinvolti poi i servizi del Paese d’origine del giovane da adottare. Una folla abbastanza nutrita di operatori quindi, che non sempre si trovano nelle condizioni di poter dialogare. Una complessità che non consente di identificare un solo punto critico responsabile del fallimento del progetto iniziale, poiché questo risulta spesso danneggiato in più punti. «Per strutturare una migliore attività di prevenzione sembra quindi più utile intervenire a più livelli, in diverse fasi dell’iter adottivo, cercando di potenziare e coordinare tra loro gli interventi dei diversi soggetti coinvolti al fine di una più idonea tutela degli interessi del minore» spiega Raffaella Pregliasco, referente adozioni dell’Istituto degli Innocenti di Firenze.
Esistono però anche adozioni impossibili. Ci sono ragazzini con un passato così difficile che rifiutano di accettare un’altra famiglia. In quel caso è meglio la comunità dove sono seguiti costantemente da un’équipe di psicologi. Il difficile è accettarlo, ammettere il fallimento e rendersi conto che non si era la persona giusta.
Ritorniamo per un attimo alla coppia innamorata di cui sopra. Immaginiamo che prima di arrivare alla scelta dell’adozione abbia passato degli anni frustranti tra tentativi falliti e pratiche di procreazione assistita. Immaginiamo abbia passato poi altri anni in attesa del figlio adottivo. La trafila per adottare un bambino come abbiamo visto è molto lunga e le domande di adozione nazionale superano di gran lunga le disponibilità di bambini in stato di adottabilità, per ogni bambino ci sono almeno dodici coppie in attesa. Alessandra, infermiera e madre adottiva di due bambini indiani, dice di aver visto delle coppie a dir poco intimorite al momento del colloquio per l’adozione. «Spesso», spiega, «è l’ultima possibilità che hai di diventare genitore. Arrivi a una certa età e non hai molte alternative. Qualsiasi prolungamento è tutt’altro che piacevole, ed è normale che tu sia stremato e terrorizzato che la procedura non vada a buon fine». Immaginiamo allora la nostra coppia in questa difficile situazione. Avrà avuto la lucidità di dire di no, se l’esperienza fosse risultata troppo difficile? Avrà avuto il sostegno necessario e in caso contrario la forza di chiedere aiuto?