Gabriele Catania, pagina99 4/10/2014, 4 ottobre 2014
PER ATTIRARE LA DOMANDA PECHINO STUDIA CODICI LATINI
Per i corridoi dell’università La Sapienza di Roma ci si può imbattere in dottorandi cinesi che conoscono il latino, parlano l’italiano e studiano il diritto romano. Scene del genere non sono insolite neanche all’ateneo di Bologna. Il motivo dell’interesse cinese verso il Digesto o le glosse di Accursio non nasce certo da un’improvvisa passione asiatica per le antichità romane o per la Scuola dei glossatori. Il fatto è che Pechino si sta (lentamente) dotando di un codice civile, e per scriverlo guarda al diritto più venerando e autorevole del mondo: quello romano, appunto.
Tutto inizia nel 1978, quando il leader cinese Deng Xiaoping vara le prime, importanti riforme economiche. Che in poco più di 30 anni trasformano il più grande Paese comunista del mondo in un’«economia socialista di mercato», come proclama la Costituzione cinese, emendata nel 2004.
Ma perché il capitalismo funzioni, serve un quadro giuridico adeguato, e i cinesi lo sanno. Non si attirano i tanto agognati investimenti stranieri diretti se non si può offrire un minimo di garanzie giuridiche. Pacta sunt servanda, recita un brocardo romano: i patti vanno rispettati. Ecco dunque la necessità di trasformare in modo radicale il sistema giuridico cinese. Che a livello civile è di matrice romanistica, non troppo diversamente dalla Germania o dall’Italia (di ispirazione germanica, peraltro, era già il primo codice civile cinese, elaborato agli sgoccioli dell’età imperiale).
«I cinesi si sono posti il problema di una codificazione civile quando si sono avviati lungo la strada delle quattro modernizzazioni di Deng Xiaoping, e si sono dovuti dare delle regole». A dirlo a pagina99 è Oliviero Diliberto. L’ex ministro della Giustizia (ed ex segretario dei Comunisti italiani) insegna diritto romano alla Sapienza, ed è uno dei grandi promotori di questo insolito asse (a livello giuridico) tra Roma e Pechino. «I cinesi hanno puntato sul diritto romano perché è straordinariamente duttile, e applicabile in qualunque sistema politico. Il diritto romano è una grande griglia, dove si può inserire qualsiasi tipo di istituto giuridico».
In altre parole, si tratta di un grande ordine che il legislatore di ogni colore può riempire dei contenuti legali che preferisce. Ecco perché piace tanto alla nomenclatura cinese. E d’altra parte c’è una sola vera alternativa al modello europeo basato sul diritto romano: «Il modello angloamericano di common law. E non credo che avessero voglia di adottare il modello di impronta anglosassone», osserva Diliberto. Sia chiaro: non esiste ancora un codice civile completo. «Stanno promulgando pezzi di codice. Hanno cominciato con i diritti reali e le obbligazioni, e non è difficile capire perché: si tratta della proprietà e dei contratti, le basi di qualunque economia di mercato». Finora l’esperimento ha dato i suoi frutti, tanto è vero che sempre più giuristi cinesi si recano in Italia per approfondire il tema. «Sono studenti eccezionali, vere macchine da guerra», racconta l’ex ministro, «qui alla Sapienza abbiamo 25 dottorandi, un bel numero».
Quanto detto da Diliberto è confermato dall’avvocato Nicolò Bellotto, dello studio Chiomenti, che vanta sedi a Pechino, Shanghai e Hong Kong. «La Rpc ha iniziato a modernizzare il proprio sistema giuridico negli ultimi decenni di forte sviluppo, spesso spinta dalla necessità di attrarre investimenti stranieri. Per fare ciò, sta adottando norme che, di volta in volta, tentano di sopperire a esigenze precipue che sopraggiungono in diversi settori. Per esempio la necessaria spinta verso la protezione della proprietà intellettuale, o la riforma antitrust».
Secondo Bellotto – che si è laureato in diritto a Modena, è solicitor nel Regno Unito e da più di sette anni lavora in Asia –, «resta un obiettivo ambizioso portare a termine con successo quell’esercizio di codificazione organica che tipicamente è necessario per creare un codice civile». Però è innegabile che la Rpc si stia “giuridicizzando”. Non a caso l’articolo 5 della Costituzione recita: «La Rpc governa il Paese secondo la legge, e ne fa una nazione socialista retta dal diritto (rule of law)». Certo, tra i proclami costituzionali e la realtà c’è un divario non indifferente. Ma sono lontani gli anni bui della Rivoluzione culturale, quando imperava il nichilismo giuridico.
Oggi la Rpc, pur non essendo uno Stato di diritto come il vicino Giappone, riconosce il ruolo cruciale della legge. E lo stesso presidente cinese Xi Jinping è, in parte, un giurista: oltre agli studi giovanili in ingegneria (un must, tra i leader cinesi) e in marxismo, vanta un dottorato in diritto conseguito nel 2002 alla prestigiosa università Qinghua, dove tra l’altro ha avuto modo di familiarizzare con il miglior pensiero riformista cinese.
Così come un numero crescente di imprenditori italiani guarda alla Cina come mercato di sbocco per i suoi prodotti, molti studi legali occidentali aprono filiali a Pechino, Hong Kong o Shanghai. Non a caso negli ultimi anni si sono verificate mega-fusioni tra studi cinesi ed europei che hanno portato alla nascita di colossi legali da 3.000 avvocati.
Naturalmente lo sviluppo tumultuoso del diritto cinese rappresenta una grande occasione professionale per i giuristi italiani, che hanno alcuni vantaggi competitivi rispetto ai colleghi tedeschi o francesi: la conoscenza del latino (spesso grazie agli studi al liceo classico), e una buona padronanza del diritto romano, che nelle facoltà di giurisprudenza italiane è materia obbligatoria. Ancora, varie facoltà offrono corsi complementari di diritto asiatico o cinese, ad esempio quelle di Bologna e Trento. Bellotto dà ai giuristi in erba questo consiglio: «Trovo sia di fondamentale importanza che un giovane laureato italiano vada all’estero a studiare, a imparare una lingua e a specializzarsi. Ci sono svariati corsi universitari, sia a Hong Kong che nella Rpc, che possono servire allo scopo. Resta però cruciale crescere prima in Italia per poi, un giorno, tornare in Asia e mettere la propria professionalità al servizio delle società asiatiche che investono nel nostro Paese».