Marina Forti, pagina99 4/10/2014, 4 ottobre 2014
IL GRANDE FRATELLO MESSICANO CHE DOMANI VERRÀ A TROVARCI
CITTÀ DEL MESSICO. Immaginate che la posizione del vostro telefonino sia registrata di continuo, e così il vostro tablet o il computer: si chiama “geolocalizzazione”, in ogni momento è possibile sapere dove siete. E anche con chi parlate, quando, per quanto tempo, da dove, dov’è l’interlocutore. E con quali reti e siti web vi collegate. Non è una novità, ma ora immaginate che queste informazioni, raccolte dalla vostra compagnia telefonica, siano sempre a disposizione di una lunga lista di enti dello Stato, dai servizi di intelligence fino al fisco, che possono pretendere di sapere i fatti vostri: senza autorizzazione di un magistrato, e senza che voi sappiate di essere osservati.
Beh, c’è poco da immaginare: è la legge sulle telecomunicazioni appena approvata in Messico, in vigore a tutti gli effetti da due mesi. «Negli Stati Uniti non sono riusciti a fare tanto», commenta Primavera Téllez Giron, giornalista e presidente dell’Associazione messicana per il diritto all’informazione (Amedi), una delle organizzazioni della società civile che si battono per una riforma democratica delle tic in Messico. Ma attenzione, aggiunge: «La legge emanata nel nostro Paese prefigura ciò che potrebbe succedere nei vostri».
Incontro Primavera Téllez nella capitale messicana, dove scopro che il controllo dei media e il diritto a comunicare sono al centro di un movimento politico che da due anni mobilita studenti, organizzazioni popolari, avvocati, giornalisti. Marce di protesta, petizioni, proposte di legge di iniziativa popolare. Oblitz sui social media – ad esempio con il video Do you know what’s happening in Mexico?, «sapete cosa sta succedendo in Messico?»: in inglese «perché vogliamo farci sentire oltre i confini della lingua ispanica», dice Primavera.
Riassume: nel 2013 il Parlamento messicano ha approvato una riforma costituzionale su media e telecomunicazioni, dopo trent’anni di vuoto legislativo. Appena un anno prima, maggio 2012, era esploso un movimento giovanile contro quella che chiamano «imposizione mediatica»: il Messico era in piena campagna presidenziale e i giovani accusavano i gruppi televisivi dominanti di manipolare l’informazione a favore dell’allora candidato (oggi presidente) Enrique Peña Nieto. Il movimento si è dato nome #Yosoyl32, da un episodio di contestazione di studenti contro la visita del candidato Peña Nieto nella loro università. Il rettore li aveva chiamati 131 “teppisti”; sulla rete è imperversato allora un hashtag, «io sono il 132esimo». Per mesi il movimento ha travolto le università e le piazze, trascinando professori, intellettuali e attivisti sociali in azioni mediatiche e in grandi dimostrazioni davanti al grattacielo di Televisa, primo gruppo tv del Paese.
Per quanto contestata, l’elezione di Peña Nieto ha chiuso quel capitolo. Ma il movimento #Yosoyl32 aveva ormai acceso il dibattito pubblico su un dato incontestabile: la concentrazione dei media in Messico fa impressione. Due gruppi televisivi, Televisa e TvAzteca, possiedono il 96% delle tv commerciali, detengono il 94% delle frequenze e fanno circa il 92% dell’audience nazionale. Si spartiscono anche il 98% della pubblicità televisiva. Televisa è stata l’unica tv nazionale fino alla liberalizzazione degli anni ’90, quando è nato il network TvAzteca (emanazione del Gruppo Salinas). Televisa controlla anche il 70% della tv via satellite e il 56% di quella via cavo, e afferma di essere prima per produzione di contenuti in lingua ispanica nelle Americhe (dati raccolti da Amedi da fonti ufficiali).
«Un potere schiacciante, che passa perfino sopra alle istituzioni dello Stato», afferma Primavera Téllez. Anche Televisa e TvAzteca hanno il 96% delle tv commerciali, il 94% delle frequenze, con un audience del 92 per cento perché «l’opinione pubblica si forma sulla tv», osserva Mireille Campos Arzeta, studentessa di dottorato che incontro all’università statale di Città del Messico, la Unam: è una dei #Yosoyl32, con due compagne ha appena presentato alla stampa una dettagliata analisi dei media messicani. «L’imposizione mediatica passa non solo attraverso i sevizi giornalistici, né solo in ciò che viene censurato, ma in ciò che propongono come intrattenimento telenovelas, pubblicità, commenti subdoli dallo studio», dice la giovane donna.
In quel clima di critica pubblica il Parlamento ha dunque approvato una riforma costituzionale sui media. «Non era male», spiega Augustin Ramirez, anche lui dirigente dell’Associazione per il diritto all’informazione: definisce le telecom come un servizio pubblico, parla di diritti degli utenti. Soprattutto, stabilisce un tetto alla concentrazione dei media e istituisce un ente di vigilanza indipendente. Il fatto è che alcuni mesi dopo il governo ha presentato la legge attuativa di quella riforma: «Ed è stato chiaro che i vecchi monopoli avevano ripreso il sopravvento», spiega Ramirez.
Dunque oggi in Messico il governo può creare “zone di silenzio”, cioè sospendere la copertura di telefonini e internet per motivi di sicurezza e ordine pubblico, e i concessionari dovranno bloccare i contenuti a richiesta del governo. Potranno anche offrire internet a diverse velocità secondo i segmenti di mercato:
la netneutrality è a rischio. Così pure il diritto alla privacy, vista la mole di metadati ormai a disposizione delle agenzie dello Stato. Inoltre il duopolio televisivo non è scalfito, e l’ente di vigilanza Ifetel svuotato di poteri (tra cui quello di concedere le frequenze). Tutte le proteste sono risultate vane: «Il Parlamento ha approvato la legge in seduta straordinaria, in luglio, durante i mondiali di calcio». Per questo, conclude Mireille Campos, il #Yosoyl32 continua: perché «il nostro obiettivo di democratizzare la comunicazione è ancora lontano».