Francesco Saraceno, pagina99 4/10/2014, 4 ottobre 2014
MA QUALE LOCOMOTIVA, LA GERMANIA È IN PANNE E CI STA AFFONDANDO
L’economia europea si è ormai avvitata in una crisi senza fondo. Come in una grottesca rappresentazione, ogni anno, in primavera i dirigenti europei annunciano alle popolazioni stremate che l’austerità porta infine i suoi frutti, e che si vede la luce in fondo al tunnel. Ma poi, inesorabile come il succedersi delle stagioni, viene l’autunno con le sue cattive notizie (in Europa, sembra che abbiamo perduto il diritto di godere dell’estate). Purtroppo, ci viene detto, la ripresa non si è materializzata, a causa di qualche evento non previsto e non prevedibile. Ma se si tiene la barra dritta, e si persiste con le riforme, l’anno prossimo certamente le cose andranno meglio. Questo copione si ripete immutato ogni anno, e cambiano solo i personaggi che lo recitano (prima la Grecia, poi la Spagna, oggi la Francia e l’Italia). Il solo personaggio che recita sempre lo stesso ruolo, di arcigno fustigatore degli altrui peccati, è la Germania della cancelliera Angela Merkel che, forte del proprio successo economico, ha spinto perché i Paesi in crisi adottassero tutti lo stesso modello: compressione di costi e salari e riduzione della spesa per sostenere la competitività delle imprese, con conseguente compressione della domanda interna a vantaggio delle esportazioni. L’austerità e le riforme strutturali sono state imposte ai Paesi della periferia in crisi (ma anche alla Francia di Sarkozy e poi di Hollande) perché questi seguissero il “modello tedesco”, e potessero quindi fondare la ripresa su un’economia competitiva e capace di esportare.
I danni dell’austerità sono sotto gli occhi di tutti e, come era facile prevedere, fare determinate riforme in periodo di bassa crescita globale può essere controproducente (se ne dovrebbe ricordare anche il nostro presidente del Consiglio). Proprio la Germania lo dimostra, avendo potuto beneficiare, quando nel 2003 ha messo in cantiere le celebri riforme Hartz, di una forte crescita globale – che ne ha sostenuto l’economia durante la complessa transizione. Ciononostante, la dottrina di Berlino non viene emendata, e la Germania è il più fiero oppositore di ogni politica macroeconomica volta a sostenere il ciclo (che sia una politica della Bce più espansiva, o un temporaneo programma di stimolo fiscale).
A sostegno della dottrina di Berlino possono essere portati i brillanti risultati dell’economia tedesca. La Germania ha superato il livello del Pil del 2008 (+3%), mentre la zona euro è ancora al di sotto (-2%), e l’Italia arranca con un -7%. Inoltre la Germania è riuscita a tenere sotto controllo l’aumento della disoccupazione, che è salita al massimo fino all’8% ed è oggi al 4,9%, mentre la zona euro nel suo insieme naviga tra l’11 e il 12%. Questa brillante performance economica avviene con un bilancio pubblico in leggero attivo, un debito pubblico in calo, e un colossale avanzo negli scambi con l’estero. La Germania è oggi il primo paese esportatore al mondo, davanti alla Cina. È comprensibile quindi che nel resto dell’Europa, appesantita da debiti pubblici e privati, si guardi con timore ma anche con interesse allo scintillante schiacciasassi tedesco.
Nel dibattito europeo molti hanno sostenuto che la generalizzazione del modello tedesco dell’eurozona non sarebbe applicabile. In primo luogo, perché un modello di crescita trainato dalle esportazioni non è per definizione generalizzabile. Se tutti esportano, chi rimane per importare e sostenere la domanda aggregata? E il secondo motivo per cui una grande economia in buona salute non può essere trainata solo dalle esportazioni è di ordine più geopolitico, visto che l’economia è esposta a tutti i rischi macroeconomici globali. Il recente rallentamento della Germania, la cui economia crescerà nel 2014 molto meno del previsto 1,8%, ne è un buon esempio. La crisi ucraina e le tensioni in alcuni Paesi emergenti legate alla politica monetaria Usa, hanno avuto un impatto immediato sulle esportazioni e quindi sul Pil.
Ma c’è di più che una semplice impossibilità di replicare il modello. Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le analisi dell’economia tedesca che ne evidenziano i limiti strutturali, che potrebbero venire al pettine prima di quanto non si immagini.
Il mercato del lavoro, in primo luogo. Dietro ai lusinghieri dati sulla disoccupazione si nascondono serissimi problemi. In primo luogo, il proliferare di lavori a bassissimo salario e a bassissima produttività, spesso part-time (i cosidetti minijobs). E, anche nei settori più protetti (nel manifatturiero e in generale nelle branche legate alle esportazioni) i salari sono negli ultimi 20 anni cresciuti molto meno della produttività. Se questo ha consentito alle imprese di fare profitti straordinari, ha anche però, nel lungo periodo, ridotto l’incentivo dei lavoratori ad acquisire qualifiche appropriate (per le quali non sarebbero stati pagati il giusto) e delle imprese ad investire in ricerca e sviluppo.
Ma il problema va ben al di là dell’innovazione. L’economia tedesca non investe più da un quindicennio almeno. Se si fa un confronto con il vicino “in crisi”, la Francia, il quadro è impietoso. L’investimento globale è stato tra il l999 e il 2013 di molto inferiore a quello francese, ma anche se confrontato con l’eurozona nel suo complesso. Non solo, la carenza è particolarmente marcata per quel che riguarda l’investimento pubblico in infrastrutture, sanità, istruzione, università e ricerca.
Il prestigioso istituto Diw di Berlino ha presentato lo scorso luglio un rapporto pieno di ombre sul tema. Secondo i calcoli dell’istituto, il gap di investimento tra il 1999 e il 2012 è stato di circa il 3% del Pil, il valore più elevato di tutta l’Unione europea – che peraltro è già, nel suo insieme, afflitta da una cronica carenza di investimenti. E il Diw non fornisce solo numeri, ma anche una batteria di esempi concreti di infrastrutture che cadono a pezzi sotto gli occhi di un governo ricco e inerte. Solo per fermare l’erosione dello stock di capitale (non per riportarlo a livelli più consoni), l’economia tedesca dovrebbe spendere circa 100 miliardi in più ogni anno. Per rendersi conto dell’ordine di grandezza, si pensi che il tanto sbandierato piano Juncker prevede 300 miliardi in 3-5 anni, ma per l’Europa nel suo complesso.
Paradossalmente, visto che l’economia tedesca ha superato la crisi con una certa facilità, negli ultimi anni il divario con gli altri Paesi si è ulteriormente ampliato. Secondo uno studio del think-tank France Strategie, la zona euro ha accumulato un ritardo considerevole, soprattutto nel settore manifatturiero. Se non è sorprendente che l’investimento sia crollato in Paesi come la Spagna e l’Italia, non si capisce cosa abbia impedito alla Germania di compensare il calo degli Stati in crisi.
Così, la mancanza di fiducia nel futuro sta oggi innescando un pericolosissimo circolo vizioso. Le imprese tedesche investono poco, e quando lo fanno, sempre meno in Germania. Bmw e Daimler hanno recentemente aperto degli impianti negli Stati Uniti. La mancanza di investimento rende a sua volta le prospettive per il futuro fosche, e giustifica ulteriori riduzioni dell’investimento.
Insomma, non è tutto oro ciò che luccica. Dietro una performance stellare, la Germania mostra il volto di un Paese che non punta sul proprio futuro. I risparmi non sono canalizzati verso l’investimento, pubblico o privato, o verso l’istruzione e la qualificazione del lavoro. Al contrario, essi vanno a finanziare gli eccessi di spesa di altri Paesi (prima della crisi principalmente quelli del sud Europa, oggi gli Stati extraeuropei). Questo non solo contribuisce agli squilibri globali, e a ridurre la crescita mondiale inondandola di risparmi. Ma sottrae risorse preziose all’ammodernamento e alla costruzione del futuro, rivelando un sistema Paese miope e concentrato sul presente.
Anche la virtù delle finanze pubbliche, che dirigenti tedeschi mostrano come esempio ai partner europei, assume contorni ben diversi.
Uno Stato il cui governo si siede su una pila di euro, e che accumula crediti verso l’estero, mentre le proprie infrastrutture cadono in pezzi, non è virtuoso ma incosciente.
La Germania deve rompere la trappola in cui si è cacciata, e che vuole generalizzare a tutta la zona euro. I suoi dirigenti dovrebbero concentrarsi sulla produttività, e non su una competitività di costo basata sulla riduzione di salari e domanda interna, il cui unico effetto è minare alle fondamenta il sistema sociale europeo. Il governo dovrebbe inoltre abbandonare il mito dell’austerità fine a se stessa, e lanciare un vasto piano di riammodernamento infrastrutturale e del sistema formativo, che farebbe da volano all’investimento privato. La Germania si riapproprierebbe così del proprio futuro. E il resto d’Europa ringrazierebbe.
Francesco Saraceno*
* L’autore è docente presso l’OFCE-Sciences Po Parise la Luiss School of European Political Economy, Rome