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 2014  settembre 05 Venerdì calendario

L’ARTE DI MEMMO. SCOPRIRE I SEGRETI DEI COLORI

Domenico Mancini, per intere generazioni di artisti semplicemente Memmo, allo scadere dei suoi settant’anni si è voluto regalare un libro. Memmo è un maestro coloraio. Iniziò nel 1960 la strada verso la pratica dei colori e dei loro impasti. Oggi ne conosce tutti i segreti. Fa venire in mente la leggenda del maestro coloraio cinese che, rinchiuso dall’imperatore in una cella sotterranea, si fabbricò un carboncino con i legni bruciati e con questo dipinse una porta sulla parete della cella. Quando la mattina arrivarono le guardie, non trovarono più nessuno, soltanto il disegno della porta. Leggenda ricordata da Luca Ronchi, che ha scritto insieme a Memmo questo piccolo, delizioso libro, intitolato «Patologia della pittura», pubblicato in tiratura limitata di trecento copie, in italiano e in inglese, dall’archivio Mario Schifano a cura di Monica De Bei Schifano. Si può acquistare sul web: www.marioschifano.it; e nella coloreria Poggi di via del Gesù. Il maestro coloraio ricorda in un lungo dialogo con Ronchi, che fu per tanti anni segretario di Schifano, i caratteri e le manie degli artisti che hanno lavorato a Roma nell’ultimo mezzo secolo, da Balthus a De Chirico, da Rauschenberg a Twombly, da Franco Angeli a Tano Festa, da Guttuso a Giulio Turcato. Ma anche gli scrittori: come Gore Vidal, che abitava a largo di Torre Argentina in un grande appartamento all’ultimo piano, con una terrazza e senza riscaldamento. «Viveva lassù insieme al compagno Howard. Io andavo a casa sua con gli attori del Living Theatre per vedere i mondiali di calcio. Io guardavo le partite e lui i calciatori». Ricorda che Cy Twombly faceva i quadri con la cementite, un materiale povero che asciugava in fretta. «La spalmava sulle tele del Belgio, altre tre metri, lunghe dieci. Le voleva così, poi le tagliava a lavoro finito». Nei primi anni del suo soggiorno romano Twombly viveva in piazza del Biscione, nell’appartamento di un pittore cinese, Jimmy Leong. «Un piano intero, con un lungo corridoio che portava a tante grandi stanze che lui subaffittava come studi ai pittori americani. C’era un profumo straordinario di pittura a olio, di smalti». C’erano pittori che chiedevano a Memmo pigmenti del passato oggi introvabili, come il blu egiziano. E quelli che cercavano il bianco di ossa e di marmo, il bianco d’uovo, il giallo indiano, «un pigmento antico che veniva dall’India, composto di terra bagnata con l’urina delle vacche nutrite con foglie di mango». Balthus gli chiedeva: «Quanto costa il bruno di mummia’». «Almeno dieci milioni, mi tocca andare in Egitto a cercarlo». A Memmo sembrava uno scherzo. «Invece poi ho scoperto che diceva sul serio. In un vecchio libro sui pigmenti ho trovato che si trattava di una sostanza scura, che si faceva nell’Ottocento macinando i resti di antichi defunti egizi e le resine che li ricoprivano, e impastandoli con l’olio di lino. Molto amato dai pittori inglesi, fu usato anche da Alma-Tadema, che quando ne scoprì l’origine rimase inorridito e insieme a Edward Burne Jones seppellì in giardino un tubetto del pigmento, celebrando una specie di cerimonia funebre».