Raffaele La Capria, Corriere della Sera 8/10/2014, 8 ottobre 2014
LE MILLE TRAME E I MILLE PERSONAGGI DELL’ULTIMO LIBRO DI PAOLO ISOTTA
Più che leggere pagine de La virtù dell’elefante di Paolo Isotta (edito da Marsilio), io le ho ascoltate. Mi è sembrato di sentire la sua voce che ha quell’intonazione alto-dialettale della buona borghesia napoletana, un’intonazione a me familiare che mi ha ben disposto all’ascolto e mi ha messo di buon umore. Ascoltando le fluviali e disordinate memorie dell’autore mi domandavo: ma che libro è questo senza le trame ed i personaggi di un romanzo ma con mille trame e mille personaggi ricordati ora con affetto ora con sapiente ironia, e sempre colti in un momento, in una frase, in un commento, rivelatori del loro carattere. Un po’ divertito un po’ frastornato dalla facondia dell’autore, e molto ammirato per le cose che dice e le cose che sa della mia città, sono entrato con lui in una Napoli «pentameronica» che mi si è rivelata in tanti e reconditi aspetti, una Napoli vivacissima, piena di vita visibile e nascosta, sotterranea, col suo civilissimo popolo, i suoi arguti borghesi, le sue famiglione, i suoi femmenielli, e il continuo aereo scambio di motti di spirito che gira intorno a loro.
Quanta ironia, quanta intelligenza, che profluvio di aneddoti, quante battute da ricordare, quanti pettegolezzi, personaggi, mezze figure e figuranti appaiono in questo teatro napoletano che Paolo Isotta fa vivere e di cui lui stesso è un protagonista. Questo è un libro «concentrico», per così dire, senza nessuna progressione narrativa, e dunque tutto si espande come le onde quando un sasso cade nell’acqua. Il sasso qui è la natura tosta di Paolo Isotta che non si smentisce mai, curiosità infinita, cultura, erudizione, presunzione, talvolta protervia, e sempre un tocco di spericolata spregiudicatezza. Ma anche, e molto spesso, delicatezza di sentimento, cordialità, simpatia, e pietas.
Tuttavia per lui è impossibile trattenere gli improvvisi scoppi di cattiveria, i giudizi inesorabili, una continua volontà di dire in faccia a chiunque, senza diplomazia, quel che brutalmente si pensa. Brutalmente e fondatamente. Quanti amici ha Paolo Isotta, quanti parenti, quanti avi e zie, nonni e bisnonni! Quanta gente altolocata conosce, quanti famosi, e anche quanti umili, tassisti, vasciaioli, ricchioni e chiavatori: di tutti Paolo Isotta sa tante cose, imbrogli, schifezze, inciuci, cose segrete e spesso indicibili, ma lui le dice, tutte le dice, divertendosi e divertendo il lettore.
Ritornando alle cose che sa, sa prima di tutto la musica, in ogni nota, in ogni sua espressione, in ogni sfumatura infinitesimale, in ogni direttore d’orchestra, in ogni esecuzione, la sa, la vive, la attraversa, ci nuota dentro, la musica insomma fa parte della sua più intima essenza, è l’anima, lo spirito che muove ogni cosa. E guai a chi — a suo insindacabile giudizio — la musica offende, guai a chi sbaglia una nota, un’inflessione, un nonnulla. Di tutto, anche di un nonnulla egli si accorge, e allora s’infuria, inveisce, dice cose terribili. Con ciò si è procurato non uno ma parecchi nemici, ma come lui dice «se ne fotte». Lui ai suoi nemici non la manda a dire, dice in faccia quello che pensa. Qualche volta la dice giusta ma qualche volta esagera, il temperamento lo trascina. È un «caratterino» e chi lo conosce lo sa. Uno come me che di musica non capisce abbastanza ricava dalla lettura del suo libro molta conoscenza, ma soprattutto è preso dal tono della scrittura che fa pensare a una conversazione piacevole sulla terrazza di un Circolo Nautico, con qualche risatina a spese di qualcuno, qualche amabile maldicenza, molte osservazioni pungenti, e sempre il condimento dell’intelligenza. Ecco, così io ascolto la voce di Paolo Isotta che mi parla dalle pagine del suo libro La virtù dell’elefante , senza mai dimenticare che questa virtù è la memoria. E che memoria! Quella di Paolo Isotta supera quella dell’elefante, lui non dimentica nulla, neppure un’allusione fugace, non dimentica il bene e non dimentica il male ricevuti, riservando eterna gratitudine o una feroce ostilità. Sì, è proprio un «caratterino» Paolo Isotta, e lo si vede dalla sua scrittura, una scrittura naturale e incurante, spigliata, guidata da un estro irrequieto, a volte strambo a volte illuminante, sempre vivacissimo e multicolore, una scrittura molto personale, autobiografica e confidenziale, una scrittura che è il suo ritratto.
Nel libro ricorre spesso, l’aggettivo grande, grandissimo incomparabile, meraviglioso, sublime, eccetera, ce ne sono forse troppi di aggettivi superlativi, ma stanno lì a testimoniare l’amorosa partecipazione, lo stupore di fronte ad ogni evento musicale cui, col palpitante suo cuore, Paolo ha assistito. Naturalmente, e con eguale forza, irrompono nel suo lessico gli aggettivi negativi e sprezzanti, altezzosi, quelli che gli sono costati avversione ed inimicizie.
Infine, nonostante il divertimento, la vivacità dei fatti raccontati, questo libro non avendo la struttura simbolica propria del romanzo, quella struttura che allude a un significato che va oltre il fatto, e non avendo perciò progressione, spesso risulta statico e ripetitivo, sovrabbondante. È come ho già detto un libro «concentrico», c’è un fondo immobile e una superficie variegata su cui scorrono uguali e continue piccole onde, tante piccole onde che si susseguono e increspano la superficie. L’autore potrebbe rispondere a questa mia osservazione che il suo non è e non vuol essere un romanzo ma un libro appunto di memorie, di cose viste e udite nel tempo della sua vita, e aggiungere, citando Montaigne: «Lecteur, c’est moi même la matière de ce livre».