varie 8/10/2014, 8 ottobre 2014
ARTICOLI SULLA MOSTRA SU GIACOMETTI A MILANO
LEA MATTARELLA, LA REPUBBLICA -
«Poiché un’opera d’arte è comunque un’illusione, bisogna intensificare la qualità illusoria, per creare il più possibile l’effetto della vita». Sono parole di Alberto Giacometti che con il miraggio, il sogno della pittura e della scultura ha sempre fatto i conti, in una spasmodica, eroica e commovente ricerca di verità. Sono nate così, scrutando senza sosta la realtà, le sue fragili e filiformi figure che si allungano nello spazio, quel popolo di ombre a cui sembra sia stato dato in destino un approdo, un luogo in cui riparare le proprie membra.
Scolpite in una materia sofferta, pulsante da cui emerge un’estrema emotività del fare, le sculture di Giacometti alterano le dimensioni dello spazio dell’uomo nel mondo che lo circonda. E la cosa straordinaria è che questo esercito di figure allampanate e allucinate per lui è davvero il frutto di una caccia che ha come preda finale semplicemente il vero. «Io non so mica di deformare! – ha detto – Per me le deformazioni sono del tutto involontarie. Io cerco di rifare quello che vedo. Il mio sforzo consiste nel cogliere, nel possedere un’apparenza che di continuo mi sfugge».
I frutti delle sue perlustrazioni laddove l’esistenza si manifesta nella sua sostanza profonda, sono esposti a Milano, alla GAM, recentemente riallestita, da oggi e fino al 1° febbraio in una mostra prodotta da GAM e 24 ORE Cultura che raccoglie più di 60 opere, curata da Catherine Grenier, direttore della Fondazione Alberto e Annette Giacometti di Parigi da cui provengono i lavori e gli affascinanti materiali d’archivio raccolti. L’esposizione fa parte dell’iniziativa “Milano cuore d’Europa”, palinsesto culturale dedicato all’identità europea del capoluogo lombardo. Divisa in sezioni, permette di conoscere a fondo uno dei più grandi artisti del Novecento. Giacometti nasce nel 1901 a Borgonovo, piccolo villaggio della Svizzera italiana vicino a Stampa, dove il padre Giovanni, pittore, trasferisce presto il suo atelier. Sembra che da bambino passasse molto tempo rannicchiato in una roccia scavata nel paesaggio alpino.
Ricorderà più tardi la felicità provata nascosto tra le montagne. E forse è proprio lì che ha inizio il suo amore per la materia tanto che nel 1922 quando arriva a Parigi è alla scuola dello scultore Bourdelle che si iscrive. Lamenterà poi che lì, a causa di un punto di vista troppo ravvicinato del modello, non riusciva a cogliere la totalità della figura. Più tardi allontanando il punto di vista creerà delle sculture sempre più piccole, tanto che quando rientra a Parigi dalla Svizzera dove si era rifugiato durante la seconda guerra mondiale, gli basterà una scatola per contenere tutta la sua produzione. Giacometti nei primi anni della sua carriera scolpisce teste, cosa che continuerà a fare anche quando il suo stile diventerà maturo. Negli occhi trova la vita. E lui è di questa che è affamato. Si racconta che nell’atelier di Bourdelle fosse attratto dai teschi: cercava di ritrovare i palpiti che li avevano animati. Aveva chiaro fin dall’inizio quanto sia breve la distanza tra l’essere e il nulla. Non meraviglia che sia stato tanto amato da Sartre e dal cenacolo esistenzialista.
In mostra ecco i ritratti degli esordi che inquadrano soprattutto i suoi familiari: la madre, il padre, la sorella Ottilia, il fratello Diego. Nel volto della madre si intravede già l’ipotesi di una realtà diversa, quell’esercizio di scavo dell’immagine che conduce quasi naturalmente a forzare la forma. Ma Parigi, com’è noto, è la capitale delle avanguardie: il Cubismo in questi anni si diffonde come un virus. E Giacometti si contagia. Nascono così le Compo sizioni in cui la realtà viene sezionata e rimessa insieme secondo una nuova idea di conoscenza. Di fronte a queste opere si capisce come per l’artista tutto ritorni sempre al punto di partenza, alla figura che attraversa il mondo, vive, respira, freme.
Così anche quando diventa surrealista, dopo che Jean Cocteau e André Masson lo introducono a Breton, scolpisce una Coppia in cui pulsa l’amore per l’arte primitiva, una Donna Piatta, una Testacranio . In questa sala troviamo un altro elemento tipico del Giacometti maturo: quella specie di gabbia-cornice in cui spesso inserisce le figure. Compare in un capolavoro del 1931, Sfera sospesa , che sembra un amplesso onirico tra il sole e la luna. La ritroveremo negli anni successivi alla seconda guerra, a volte a imprigionare, altre a proteggere, le sue esili e drammatiche figure. Un esempio di queste strutture è la Gabbia scolpita tra il 1949 e il ‘50, ma le troviamo anche nei bellissimi quadri il cui il disegno si agita per afferrare sguar- di spesso in allarme. Negli anni in cui è vicino a Breton e compagni compare l’allungamento dei corpi che nel dopoguerra diventerà costante: lo incontriamo nella Donna che cammina concepita come manichino per l’Esposizione Surrealista del 1933.
Il problema è che a Giacometti la realtà, l’attraversamento dell’esistenza vera, sono molto più congeniali dei capricci del sogno e dell’inconscio. Uscirà dal movimento nel 1935 per riprendere a scolpire i suoi volti in cui cerca la rassomiglianza con l’anima del personaggio. Sono gli anni delle Teste di Rita e di Diego poste su basi alte quasi come loro, a rovesciare il senso della monumentalità della scultura. Nel dopoguerra ecco l’esercito di fantasmi che abitano La radura o si ergono su piedistalli. Hai sempre paura che si facciano male, o peggio, che siano già feriti dal loro stesso incedere nel mondo. «Ho sempre l’impressione o la sensazione della fragilità degli esseri viventi – ha affermato – Ho la percezione che debbano contare su un’energia formidabile per stare in piedi, istante dopo istante, sempre con la minaccia di crollare. Questo lo sento ogni volta che lavoro dal vero». Ecco da dove arriva questa straordinaria potenza espressiva, dalla consapevolezza della difficoltà dell’essere, direbbe Sartre, gettati nell’esistenza. La Grande donna I-Vci sovrasta dall’alto dei suoi tre metri ma è comunque in pericolo. D’altra parte Giacometti voleva scolpire «per mordere nella realtà, per meglio attaccare, afferrare, avanzare su tutti i piani, per difendersi dalla fame, dal freddo, dalla morte, per essere il più libero possibile», ed era convinto di riuscire a fare solo «una pallida immagine di ciò che vedo». Nel suo epico accanirsi ritrova la bellezza del confronto con gli antichi maestri: superbi i disegni che interpretano Tiziano, Raffaello, Rembrandt, Masaccio e Masolino su uno stesso foglio con quel segno sicuro, eppure sempre in allarme.
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ACHILLE BONITO OLIVA, LA REPUBBLICA -
Ho sempre pensato pensato che la scultura è un genere che deve chiedere perdono. Per ingombro, volumetria, peso, occupazione di suolo pubblico e privato. Nella sua evoluzione linguistica si è sempre dovuta confrontare con queste difficoltà. Anche Michelangelo si era misurato con le specificità del genere, approdando al metodo del togliere, sottrazione progressiva della materia fino ad un approdo alla forma definitiva.
Nell’arte contemporanea, Alberto Giacometti ha sviluppato un confronto sistematico con la scultura arrivando a soluzioni che ne fanno un vero e proprio artista concettuale.
Dalla Svizzera l’artista passa a Roma, dove vi soggiorna per due anni per poi trasferirsi nella sua seconda patria, Parigi.
Influenzato da Tintoretto e Giotto, da un’antropologia culturale insita nel linguaggio specifico della scultura, porta la sua attenzione, indietreggiando nel tempo, fino a quella primitiva. Da qui il costante riferimento alla figura umana, maschile e femminile, che sembra attraversare l’ansietà del proprio tempo e la precarietà di una storia segnata da lutti e conflitti, ma anche da un costante vitalismo accompagnato dal sentimento di una solitudine inevitabile.
Dagli anni Venti in avanti l’artista svizzero attraversa anche i movimenti delle avanguardie storiche, cubismo e surrealismo, che ne segnano molti esiti formali. La scarnificazione cubista della materia viene portata fino alla geometria di dettagli che sembrano impedire la riconoscibilità della forma proposta come in Torso ( 1925).
Il passaggio al sodalizio con André Breton segna l’adesione al surrealismo, in cui prevale una spinta verso il simbolico, come si desume dalla Sfera sospesa ( 1930). In ogni caso costante è l’assottigliamento antropomorfico della figura rappresentata e un’attenzione ossessiva non allo spazio topologico, tipico della scultura, ma a quello percettivo che appartiene piuttosto alla pittura. Una sorta di trend anoressico sembra sostenere felicemente l’opera di Giacometti, nella continuità differente dei due generi.
Prevale dunque la ricerca percettiva di una forma che vaga nell’ horror vacui dello spazio, occupato da figure sempre in transito, nella posizione di una provvisoria attesa senza risultato. Forse frutto del suo incontro con Samuel Beckett che ha segnato col suo teatro una visione del mondo fatto più di monologhi che di dialoghi.
Fino al 1966, anno della sua morte, tra scultura, pittura e disegno, Giacometti ha praticato un processo creativo come continua erranza dell’essere, sostenuto da un clima culturale che risente anche dell’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre. Emblematica è la Gabbia ( 1931), che descrive attraverso la trasparenza la delimitazione dello spazio scultoreo e lo sconfinamento in una percezione senza ostacoli.
Trasparenza significa vedere lontano, andare oltre l’occasione e la contingenza della materia fino ad arrivare al recupero dell’umano, rappresentato anche nei frammenti fisiologici e sessuali, dall’occhio agli organi genitali maschili e femminili. La distanza aiuta a recuperare la visione completa della figura, l’uomo nella sua interezza: Uomo indicante ( 1947) e L’uomo che cammina ( 1960).
Ecco l’approdo finale alla ricostruzione antropologica dell’essere assottigliato e pure riconoscibile, stabilizzato nelle posture del passo e dell’immobilità, sempre alla ricerca di un centro introvabile ma stoicamente portato verso i movimenti della vita. L’altrove.
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ROBERTA SCORRANESE, CORRIERE DELLA SERA -
Parigi. L’ombra della sera. Una donna che si allontana verso il tramonto, sempre più sottile però completa. La si poteva finalmente vedere nella sua interezza. Alberto Giacometti guardava la sua amica rimpicciolirsi nel sole morente e diede corpo a una delle sue inquietudini più brucianti: rappresentare la compiutezza del visibile.
Non il dettaglio (fallace), non l’informazione (bugiarda), ma l’essenza del tutto. Ossessione che lo attanagliava sin dall’infanzia nei Grigioni, dove quella roccia scura e tagliente lo invitava a scavare. Ecco perché Alberto Giacometti , la mostra che si apre alla Gam di Milano, è prima di tutto un percorso multipolare alla ricerca di questa pienezza da parte dell’artista svizzero di origine, parigino d’adozione, universale per vocazione. «Un filo rosso — dice la curatrice Catherine Grenier — che lega la fase iniziale, la Surrealista, l’Esistenzialista e la Cubista, nonché le suggestioni che seppe cogliere dalla lezione dell’arte antica, in una narrazione originale che aveva un unico obiettivo: andare oltre il tempo, cogliere la totalità dell’essere».
Le origini spiccano nelle belle teste in gesso e bronzo, illuminate dalla cascata di luci e stucchi della Galleria. Testa della madre, austera e foriera di quella sorta di ascetismo che segnerà l’artista, educato alla scuola evangelica di Schiers, fonte di continue contraddizioni esistenziali: il rigore di sé contro il piacere dei sensi, tanto bramato quanto ostacolato dalle menomazioni fisiche. Teste, teste solide, lo sguardo è quello enigmatico dell’antichità. Perché, ventenne, Alberto visita Padova, Firenze, Roma. Giotto, Michelangelo, Raffaello, la lezione di Masolino e le sue figure allungate che fuggono disperate dal Paradiso: tutto si ritrova qui, negli schizzi a matita e a carboncino, quelli degli inizi, quando ancora, prima di chiedersi come scolpire, si chiedeva con angoscia: ma che cosa ? Quale realtà?
Rodin, a fine Ottocento, aveva aperto la strada: impossibile narrare il vero così com’è, ti serve uno sguardo. Il più possibile onesto, come Alberto cercava di imparare alla scuola di Antoine Bourdelle. Parigi, dunque, primi anni Venti. Pochi anni prima Modigliani aveva dipinto il grande Nudo disteso , Picasso faceva maestose maternità. Giacometti no. Lui distorce il visibile in figure cubiste dense nei volumi, compatte (in mostra), come a restare aggrappato a un barbaglio di realtà. La festa mobile (come la chiamerà Hemingway) lo travolge, il Surrealismo di Breton «lo arruola, ma non perde la sua autonomia», sottolinea Grenier. E che meraviglia, qui, le sculture che sembrano uscire da una fantasia del primo Dalí o da una poesia straniante di Louis Aragon o da una performance di Tzara.
Sfera sospesa (1931) è un pensiero in gesso e metallo, La coppia (1927) è un’allusione al per sempre impossibile. Ma l’illusione surrealista non basta. Molti si arrendono. Il bellissimo poeta René Crevel si toglierà la vita, Dalí sublimerà le inquietudini nell’autocaricatura. Giacometti si riaggrappa alle origini telluriche e prende a scolpire dal vivo. Inaccettabile per Breton. È rottura con i Surrealisti, ma a metà degli anni Trenta per lo svizzero è l’inizio di un decennio «fatto di piccole sculture in miniatura, come se l’inseguimento della pienezza fosse diventato un bisogno impellente», dice Grenier. Piccolo busto di Annette o Piccolo busto su doppia base sono assiomi: grandi piedistalli, piccoli corpi. Siamo inconoscibili, al massimo percepibili. Tema, questo, di lunghe discussioni con i nuovi amici parigini: Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.
Comincia forse qui a sventrare le figure, allungarle, ingigantirle proporzionalmente alla scarnificazione. Un moderno «perché non parli!?» di michelangiolesca leggenda, un incessante interrogare il corpo che continua a fuggire, la realtà che non si svela e forse è meglio così — il quasi contemporaneo Jacques Lacan lo aveva capito: acquistò L’origine du monde di Courbet ma lo tenne in casa coperto da una tela di André Masson, come a dire «meglio non guardare in faccia le cose vere».
Ecco perché la Grande Donna in mostra, femmina monumentale nella sua esile consistenza, è il punto d’arrivo di questo cammino: ingigantire non vorrà dire vedere meglio ma vedere quello che già sai. E forse, a volte, basta. Vedere il conosciuto, la donna, la madre, le origini. E, non a caso, nell’ultima parte della sua vita Giacometti tornò a Stampa, in Svizzera. Si riavvicinò alle sue rocce, fece ritratti della sua folta famiglia di artisti. Un percorso articolato il suo (la Fondazione Alberto e Annette Giacometti di Parigi ce lo racconta in questa intelligente mostra con 60 opere), scandagliato da innumerevoli intellettuali, (Merleau-Ponty e Yves Bonnefoy sono solo alcuni che hanno scritto su di lui), ma che forse ebbe una conclusione degna dei suoi desideri, quelli espressi anche dalle parole: «Avanzare sempre, anche di poco, ma avanzare ogni giorno».
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FRANCESCA BONAZZOLI, CORRIERE DELLA SERA -
Se non fosse stato per il fratello Diego che — alzandosi alle prime ore del mattino, più o meno quelle in cui Alberto andava invece a dormire — prendeva dall’atelier le sculture che giudicava buone e le portava subito in fonderia, non avremmo nemmeno la metà delle opere di Giacometti. «Non va, non va», borbottava sempre mentre continuava a togliere gesso dalle statue che modellava fino a renderle così sottili da sembrare barcollanti. Di molte ci restano solo le fotografie perché il giorno dopo erano già diverse.
In questa ricerca di distruzione c’erano due contraddizioni: da una parte, sostenevano i suoi denigratori, coerenza avrebbe voluto che l’artista si astenesse, invece, dal continuare a produrre e vendere a ottimi prezzi; dall’altra, quei lavori modellati nel gesso, preferito da Giacometti proprio perché molto friabile, venivano poi fusi nel bronzo, il materiale più nobile e durevole nella storia della scultura. Altro che fragilità!
Molti degli esemplari che conosciamo della statuaria classica — per esempio il Doriforo di Policleto o l’Apollo del Belvedere — sono infatti copie in marmo dell’originale in bronzo perduto e questo è il motivo per cui i bronzi di Riace sono stati salutati come un ritrovamento raro ed eccezionale. Una statua in bronzo, rispetto ad una di marmo, era considerata più preziosa non solo per il costo del materiale, ma anche per la difficoltà della fusione che poteva dare luogo a insuccessi economicamente molto onerosi. Nelle sue memorie, Benvenuto Cellini ha trasformato la fusione del Perseo in un’impresa epica con se stesso nei panni di un alchimista stregone che riesce nell’intento nonostante la febbre da esalazioni metalliche, il temporale, l’incendio della bottega e un’inaspettata insufficienza di stagno che lo costrinse a correre a casa, fare incetta di stoviglie e buttarle nel crogiolo per non rovinare l’impresa. La scommessa era fondere in un unico pezzo l’intera scultura emulando gli artisti che cavavano la figura intera da un solo pezzo di marmo come aveva fatto Michelangelo con il David.
Se Cellini ci riuscì passando per questo alla storia, molto meno abili furono i Righetti cui Canova affidò la fusione della statua di Napoleone destinata a Milano. Il primo tentativo fallì e Francesco Righetti «fu sul punto di ammazzarsi, trovandosi ferito nell’onore e nella riputazione». Il bronzo era stato recuperato fondendo i cannoni di Castel Sant’Angelo e non era la prima volta che il Papa aveva dovuto cedere a rivali militarmente più forti di lui. Alfonso I d’Este, il duca di Ferrara, appassionato di metallurgia e armi da fuoco, si era fatto fondere un cannone portentoso con il bronzo della statua di Giulio II che Michelangelo aveva di mala voglia fuso per la facciata di San Petronio a Bologna. Quando i Bentivoglio, nel 1511, rientrarono in possesso della città, tirarono giù la statua e i frammenti furono inviati al duca di Ferrara (cognato di Annibale Bentivoglio) per farne una colubrina chiamata sarcasticamente «la Giulia».
Il bronzo era un materiale troppo ambito per non venire sacrificato alle brame di potere di sovrani sempre a corto di contante e questo ha fatto sì che gran parte delle statue antiche siano state trasformate in armi. Insomma, la loro funzione di preservare la fama di un personaggio non era più sicura di quella affidata a una statua di marmo. Nella contesa se fosse più duraturo un monumento di marmo o bronzo, Shakespeare non aveva dubbi: nessuno dei due. Solo le parole, scriveva nel sonetto 55, vivono per sempre e sopravvivono alle rovine delle guerre.
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GIULIO GIORELLO, CORRIERE DELLA SERA -
«La massa, in realtà, è fatta di individui», ribatteva Alberto Giacometti a Grazia Livi (nell’intervista a «Epoca» della quale nell’altra pagina riportiamo alcuni stralci, ndr), provocato dallo stereotipo della massificazione crescente che livellerebbe ogni singolarità. Ce l’aveva con quelli che additavano l’impresa tecnico-scientifica come principale responsabile dell’aver ridotto la società contemporanea a un aggregato di nuovi schiavi. E invece per Giacometti non siamo mai stati tanto liberi come ora, al punto che l’instancabile lavoro dell’artista ne guadagna: «La fotografia, i raggi X, gli apparecchi microscopici hanno fatto sì che noi potessimo entrare dentro ai segreti stessi della materia: ingrandendoli, deformandoli». Chissà che cosa direbbe oggi delle tecniche di neuroimaging che ci fanno vedere dentro il cervello, e magari nei labirinti dell’inconscio! Ma la crescita tecnologica per molti minaccerebbe i nostri valori più cari, quelli che etichettiamo come «non negoziabili». E Giacometti, già nei primi anni Sessanta: «Se mi parlate dei valori che si sono andati disgregando, questo è bene, benissimo». L’artista era un autentico individualista, che amava ritrarre gli esseri umani proprio perché erano loro a creare la scienza. Il che non toglieva il senso del mistero. Ogni corpo, anzi ogni testa (per Giacometti una magnifica ossessione) metteva in luce «lo sforzo di cogliere, di possedere un’apparenza che di continuo sfugge». Ha ricordato uno scrittore come Giorgio Soavi, che è stato suo modello, il «tremore» di chi è ritratto e di chi ritrae nell’incrocio degli sguardi. E i giudizi di Giacometti sono stati accostati a una battuta del suo grande amico Samuel Beckett: «Essere artisti significa fallire, ma come nessun altro osa fallire». Per Giacometti, come per Beckett, questo non significa crogiolarsi in un nichilismo impotente, ma esprimere una geometria di forme e concetti, senza rassegnarsi mai. Non è una situazione troppo diversa dalla tensione essenziale che pervade la scienza; e una grande tradizione di pensiero, da Peirce a Popper, da Feyerabend a Lakatos, ha saputo audacemente rivendicarla come un merito. Si tratta sempre di imparare dai propri errori, perché è la stessa esperienza del fallire che ci fa conoscere qualcosa di noi.
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FRANCESCO POLI, LA STAMPA -
Alberto Giacometti ritorna a Milano, dopo parecchi anni, nelle magnifiche sale neoclassiche della Galleria d’Arte Moderna, in un’esposizione che mette in scena un’ampia selezione di opere provenienti dalla Fondation Annette e Alberto Giacometti di Parigi. La mostra, che ripercorre le tappe fondamentali della straordinaria avventura creativa dell’artista, è stata curata dalla direttrice della fondazione Catherine Grenier. La Grenier è stata direttrice aggiunta del Centre Pompidou, ha curato varie mostre di rilievo internazionale internazionale (di recente «Modernité plurielle de 1905 à 1970», al Pompidou) e scritto molti saggi tra cui quello dedicato all’attualità dell’opera di Dalì.
Perché Giacometti è un artista così amato dal grande pubblico, anche se il suo lavoro è molto complesso, difficile, raffinato e terribilmente pessimista?
«Giacometti è un artista che non è specificamente legato a nessuna avanguardia. È una figura singolare, una personalità autonoma, indipendente, la cui opera è allo stesso tempo assolutamente contemporanea, e connessa a tutta la storia dell’arte. Ha creato un’estetica con caratteri universali e atemporali, che viene compresa dagli europei, dagli americani, dagli asiatici, e da tutte le generazioni anche dai più giovani».
Mostre di Giacometti, in giro per il mondo e anche in Italia, se ne sono fatte tante e si continuano a organizzare. C’è ancora qualcosa di nuovo da dire e da scoprire riguardo alla sua opera?
«Penso proprio di sì. Da troppo tempo la lettura critica prevalente è stata quella di taglio esistenzialista, alla Sartre. Oggi è anche importante mostrare che la sua via di ricerca della rappresentazione dell’individuo, del suo rapporto col mondo, hanno origine da problematiche presenti fin dagli Anni 20. La sua attitudine di fondo è quella dell’osservatore distaccato del mondo e allo stesso tempo sensibile alle questioni dell’assurdità della condizione umana».
Come Samuel Beckett?
«Esattamente. Il legame c’è già prima che si conoscessero. È una questione di linguaggio in relazione alla figura umana, e della componente ironica presente in entrambi»
Quali sono le sue più importanti invenzioni dal punto di vista formale e del linguaggio plastico?
«Per esempio il rapporto che instaura fra figura e piedestallo (che già Brancusi aveva affrontato ma in modo diverso). In Giacometti il basamento diventa figura e la figura basamento (i grandi piedi “piedestalli”). Inoltre è fondamentale il rapporto di scala: sculture piccolissime si caricano di straordinaria tensione spaziale quando sono posate su basi apparentemente sproporzionate. Per mostrare la forza di questa invenzione plastica, nell’ultima sala ho messo a confronto una scultura piccolissima con una statua gigante. Un altro aspetto fondamentale è la sua capacità di sintesi delle più svariate influenze dall’arte africana e oceanica a quella cicladica, da quella egiziana e etrusca agli esempi più classici della storia dell’arte. Tutto questo traspare nei lavori ma non c’è mai assolutamente nessuna citazione. Per mostrare la sua passione per l’arte del passato (anche in particolare quella italiana) c’è una sala con molti disegni di copie di opere di grandi maestri».
Che cos’è veramente il “realismo” di Giacometti? L’artista ha dichiarato: “Io cerco semplicemente di rappresentare quello che vedo. Io non deformo. Il mio sforzo è di fissare un’apparenza che mi sfugge continuamente”.
«Giacometti è veramente realista (non realistico, verista) nel senso che lavora sempre con il modello davanti. Fondamentale per lui è la relazione reale, esistenziale, con le persone per cercare di cogliere qualcosa di più profondo e essenziale al di là dell’apparenza. Per lui il reale è una ricerca ossessiva dell’identità della persona, che non può mai essere definita una volta per tutte».
Perché Giacometti ha, per molti versi, rimosso il suo periodo surrealista, anche se è un contributo essenziale per il surrealismo e per tutta l’arte del XX secolo?
«Non l’ha veramente rinnegato. Se n’è allontanato perché sentiva di non potersi rinnovare in quella direzione di ricerca. E perché voleva andare oltre all’oggetto per fare delle opere che veramente incarnassero il senso dell’esistenza. In ogni caso lo spirito surrealista ricompare anche successivamente. Basta pensare a sculture molto più tarde come La gamba o Il naso.
In mostra ci sono le sculture molto grandi di un progetto monumentale mai terminato New York. Questo progetto monumentale non è in contraddizione con il carattere radicalmente antimonumentale della sua scultura?
«È vero. Giacometti ci teneva moltissimo a questo progetto, ma poi si è accorto che comunque le sue sculture non potevano essere troppo ingrandite ed essere collocate tra i grattacieli di New York. E per questo che ha interrotto il lavoro».
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MARCO VALLORA, LA STAMPA -
È curioso come uno dei protagonisti assoluti della dissoluzione e quasi disparizione della figura umana, consunta, urticata, corrosa (sin a parere un osso spolpato, gettato a terra, al cane ringhioso della miseria espressiva novecentesca) quale Giacometti rimanga legato, nel nostro inconscio visivo, a delle immagini-icone, così ben formulate: indelebili «flash». Giacometti, che si copre il capo improvvisato, con un lembo di gabardine malandato, per difendersi dalla meticolosa pioggerellina, che sta abbattendosi sul marciapiede del suo mitico studio, 46 rue Hyppolite-Maindron; mentre sta avviandosi, mitragliato dallo scatto amico e complice di Cartier-Bresson, verso il suo caffeuccio di Rue Alésia, a mangiarsi due stantii ovetti sodi, e scambiare due chiacchere vitali, due boccate di fumo, esistenzialistico e nutritivo, con le sue compagne della vita. Le miserande e loquaci peripatetiche, truffaultiane, di strada. O, ancora: Giacometti alla Biennale, che traghetta lui stesso le sue steli-macigno, nelle sale deserte e stupefatte, sposando una sisifea solitudine beckettiana. Ed è lui che pare piuttosto un ectoplasma sfibrato e sfuggente, masticato da un clic, sfumato e mosso. Mentre le sue titaniche figure scorticate, intaccate dalla lebbra dell’inquietudine e, massima ossessione, del movimento transeunte, sostano in realtà, solide e perentorie, riottose come cinghiali. Oppure, in una bellissima immagine poco nota, inserita in questa mostra milanese, calibrata ma intensa, ad inaugurare un nuovo spazio raccolto, neoclassicamente decantato, che gli giova (non come quel bailamme visivo saprofita, entro le sale risentite e svogliate della Galleria Borghese romana) mentre s’abbarbica divertito a una delle sue maquette, in gesso tormentato, delle sue Déesse, polpastrellate e trafitte, dalla freccia inesorabile dell’ insoddisfazione. Ed il suo volto, trafficato di rughe e di malmostosità antiche e stratificate, con quell’allure sfrontata da Gavroche spettinato della storia dell’arte, sta proprio lì, come affondato, sorridente sotto i baffi inesistenti, da felino ron ron, accanto alla deliziata «origine del mondo» della sua palpeggiata modella diligente: vinta dal suo tattilismo frenetico e malato.
Iniziava al mattino scontroso, a metter le mani nella pasta esuberante e generosa della sua unta terra cedevole. E via via che procedeva, scartava, sottraeva, liquidava, gettava e disfaceva, lavorando di lima, di unghie, di temperino e d’accidia, non rimaneva quasi più traccia: il «non-so-che ed il quasi-nulla», come avrebbe potuto chiosare Jankélévitch. Sino che a sera il fratello Diego (suo modello-vittima predestinata e silente vestale domestica: nessuno poteva toccar nulla, altro che spolverargli la vita e l’atelier!) non reperiva, sgomento, altro che un’anima sconfitta di scultura, un’ombra, un fantasma. Dicono che la grande, seduttiva Marlene Dietrich, che forse venne qui nell’illusione suffragetta di posare per lui, non trovò nemmeno un trespolo, ove posare le sue belle, pubblicitarie gambe Lilì Marleen. Niente: solo libri, ritagli, cicche, moccoli, residui sputati e solitari, rabbrividenti resti del gran combattimento quotidiano con la materia ribelle. E certo lui non era così galante da fare un gesto di galanteria riparatoria. Più abituato a dialogare con le sue puttane da cinéma noir, o i suoi modelli ossessivi. La paziente e ferita moglie Annette, che gli ricordava la madre lontana a Stampa. Il fratello Diego, appunto (creativo artigiano della decorazione, sotto la rigida supervisione di Alberto: loro gli arredi neo-barocchi del Museo Picasso). Come il professore giapponese Yanaihara, ibernato in mostra, studioso di Heidegger, ch’era venuto in studio per una posa fulminea, ed era rimasto invece quasi una vita, «gettato», tra le disperazioni reiterate ed ossessive del Maestro, che non sapeva «colpire» la sua rassomiglianza, impossibile e sfuggente. Come la sua fronte, d’accademico inespressivo. Era rimasto, stregato, proprio come lo scriba ingabbiato nel suo corpo, che Giacometti aveva «rubato» alla plastica egiziana: geroglifico ormai del Nulla (e si era accomodato anche nel letto di Annette, come muto «riparatore». In stile film di Ozu). Giacometti è tutto lì: in quello strazio che si fa scultura macerata, filiforme, esalante l’ultimo respiro di gesso o di bronzo. Che si coagula in quell’espressività contrastata, rappresa, drammatica. Da un lato si schiera Breton, lo snob d’avanguardia, che gli rimprovera: «Ma come, ancora la storia d’una testa, del volto, la cosa più facile da dipingere!» e che non bisogna più dipingere. Dall’altra Giacometti, che ha il suo momento d’infatuazione surrealista, brevissimo, dal ’31 al ’35 (anzi, Dalì sostiene che la sua Boule souspendue è il prototipo degli «oggetti a funzione simbolica»: macchina ottica altamente celibe). Ma poi Giacometti si stufa di quei meccanismi simbolici alla Dalì. Il libidinoso «questore» Breton non vede l’ora di scomunicarlo, e lui torna al suo dilemma di sempre, lacerante, del volto da «somigliare», irraggiungibile, come penetrare entro uno sconsolante «invincibile Sahara». Con quelle pupille dipinte o scavate, che paiono sgomento vivente: un bersaglio impossibile. In quella gioia spumante e tragica della materia stracciante, vittoriosa. Come suggerisce il filosofo Nancy: ritrarre come «ritrarsi».