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 2014  ottobre 08 Mercoledì calendario

LA PROMESSA DI DIMAN: «NOI DONNE PESHMERGA PRONTE A FARCI ESPLODERE»

«Ma perché la chiamate kamikaze? Il comandante Arin Mirkan ha solo cercato di sfuggire al martirio che le avrebbero inflitto gli islamisti, stuprandola prima di ucciderla. Ha agito nel migliore dei modi: facendone saltare in aria il più gran numero possibile».Anche la ventiduenne Diman Rhada è una comandante peshmerga, ma lei combatte in Iraq, a nord di Mosul, e non in Siria come faceva la Mirkan, sia pure contro lo stesso nemico, le brigate nere dello Stato Islamico. «È diventata per noi tutti un’eroina, e il suo sacrificio ci spinge a lottare, se possibile, con più ardore di prima», dice Diman che raggiungiamo sul suo cellulare al fronte, dove con la sua unità guerreggia da più di un mese.
Lei avrebbe fatto la stessa cosa? Si sarebbe fatta saltare in mezzo ai jihadisti?
«Credo di sì, perché tutti sanno quello che ci fanno quando ci catturano: prima ci violentano in gruppo, fino all’ultimo dei loro miliziani, e poi ci decapitano. Tuttavia, nonostante l’orrore di una tale eventualità, non so se riuscirei a trovare il coraggio di uccidermi. Bravissima è stata Arin Mirkan, che dopo aver terminato le munizioni ne ha spedito in inferno decine di loro. Il suo gesto fa onore a tutto il popolo curdo, e per averlo compiuto è già entrata nell’olimpo dei nostri martiri più amati. Del suo coraggio, ne sono sicura, parleranno le generazioni future».
Che cosa faceva, prima di combattere?
«Insegnavo in una scuola di Sulaymaniyah, nel nord del Kurdistan. Ho anch’io due bambini, come Mirkan. Ed è per loro che mi sono arruolata e che combatto. Proprio come fece mio padre, che era anche lui insegnante e che durante la guerra contro Saddam Hussein imbracciò il fucile per difendere la sua famiglia».
Ma non le fanno paura gli islamisti del “Califfato”?
«Certo che mi fanno paura, ma mi spaventa ancora di più l’idea che possano entrare in Kurdistan, conquistare altri nostri villaggi e sottomettere la nostra gente. Sono soldataglie assetate di sesso e di potere. Si dicono soldati fedeli di Maometto, ma sono solo uomini senza religione e senza morale. Sono perciò terrorizzata da loro, ma so anche che non posso esimermi dal mio dovere che è quello di essere qui, a difendere la mia patria. Da noi si dice che in ogni curdo si nasconde un peshmerga. È vero solo a metà, perché lo stesso discorso vale per le donne curde. Ma in Kurdistan non tutte le donne hanno la possibilità di battersi contro il nemico».
Ha seguito un addestramento militare?
«Sì, ma è stato solo per la forma. A combattere, e quindi a sparare, mi ha insegnato mio padre, nelle montagne di Sulaymaniyah, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Lo stesso ha fatto con i miei fratelli. Ci sono soldati-donne in molti Paesi del mondo, dagli Stati Uniti a Israele, dalla Francia alla Germania. Ma credo che solo da noi l’addestramento alle armi sia una que- stione di famiglia. Tra i peshmerga si contano circa 16mila donne. Rappresentiamo, con grande fierezza, più del 30 per cento degli effettivi».
A proposito,vii sono arrivate le armi promesse nelle scorse settimane da diverse potenze occidentali?
«No, alla mia unità femminile non è arrivato nulla. Al fronte attacchiamo e ci difendiamo ancora con i soliti arrugginiti kalashnikov e con i vecchi mortai di sempre. Ma le posso assicurare che a saperli adoperare possono fare molto male anche loro. Il problema è che gli islamisti dispongono di carri armati e di artiglieria pesante moderna e sofisticata. Per questo, appena arrivate a Erbil, le armi americane sono state subito distribuite alle nostre unità d’assalto».
La bandiera islamista è appena stata vista sventolare sulle alture nei sobborghi di Kobane, dove si combatte strada per strada. Crede che ce la faranno i peshmerga a difendere la loro città?
«Non dipende più da loro, che ce la stanno mettendo tutta, con atti di straordinario eroismo, come quello del comandante Mirkan. Adesso, il futuro di Kobane dipende soltanto dalla coalizione anti-Is, perché gli islamisti hanno concentrato le molte delle loro forze attorno a quella città, e dispongono di armi molto efficaci. In primo luogo dovrebbe intervenire la Turchia, ma non lo fa perché non vuole aiutare i suoi nemici storici del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan. Ma è suicida non farlo, perché Ankara si ritroverà molto verosimilmente con una città ai suoi confini governata dagli sgherri del califfo».
Ormai, con la vostra controffensiva siete arrivati a pochi chilometri da Mosul, che era caduta nelle mani dei miliziani lo scorso giugno. Quanto ci vorrà per riconquistarla? «Credo che potremmo riconquistarla anche domattina. Ma a quale scopo? Che cosa faremmo di tutti i sunniti, e sono tanti, che in questo momento stanno collaborando con gli islamisti? Oggi, la nostra strategia è un’altra. Consiste nel respingere il nemico più in là possibile, per creare una sorta di zona cuscinetto, che ci serve a proteggere il nostro territorio. Un domani, quando dal cielo i caccia della coalizione avranno sufficientemente fiaccato l’esercito del Califfato, potremo forse pensare di prendere Mosul. Purtroppo, però, quel giorno è ancora lontano».
Pietro Del Re