Diego Gabutti, ItaliaOggi 7/10/2014, 7 ottobre 2014
SCIENZA PRIVA DI SCOPERTE SCIENTIFICHE, L’ECONOMIA SI È TRASFORMATA, DURANTE IL VENTESIMO SECOLO, IN UNA SORTA DI MOVIMENTO NEW AGE
Autrice di questo feroce e illuminante pamphlet sulle vanità dell’economia, I vizi degli economisti, le virtù della borghesia, IBL Libri, pp. 138, 16,00 euro, ebook 4,74 euro, Deirdre McCloskey (Donald McCloskey fino al 1966, prima del cambio di sesso) ha rivelato ciò che tutti hanno sempre saputo, gli economisti per primi, ma che nessuno aveva l’audacia di dire: che l’economista è nudo.
«Scienza priva di scoperte scientifiche», l’economia si è trasformata nel XX secolo in una sorta di movimento new age, che si propone più o meno gli stessi obiettivi della chiromanzia: indovinare il futuro, e fornire ai politici (che sono specialisti della stessa materia, l’aria fritta) e agl’investitori più boccaloni i numeri del lotto per rivoltare il mondo come un calzino. Gli economisti, intendiamoci, sono in buona compagnia. Non sono stati soltanto loro, nel Ventesimo secolo, a dotarsi di strumenti magici per scacciare il malocchio storico e sociale.
Ci hanno provato tutti: è la maledizione della mummia modernista. «Virginia Woolf scrisse che intorno al dicembre del 1910 la natura umana cambiò. Beh, c’è da dubitarne», spiega McCloskey. «Il cambiamento, ancora in corso nei decenni conclusivi del Diciannovesimo secolo, era il progressivo distacco dell’intellighenzia dal mondo borghese da cui traeva origine, accompagnato dal desiderio di mettersi su un livello più elevato. Gli intellettuali volevano rendere i romanzi difficili e tecnici — Joyce, o Virginia Woolf — per sottrarli agli incolti e per elevare se stessi a nuova aristocrazia dello spirito. Lo stesso fenomeno si è verificato in pittura, nella musica e nella filosofia.
La nuova aristocrazia intellettuale voleva rendere tutto difficile e tecnico, e c’è riuscita. Lawrence Klein, Paul Samuelson e Jan Tinbergen», gli economisti (e Premi Nobel) che nel racconto di McCloskey hanno inaridito la sostanza filosofica dell’economia classica, liberale, «erano modernisti del periodo intermedio». Klein piegò l’economia alla facile scorciatoia matematica della «significatività statistica», Samuelson fece dell’economia una scienza astratta come una tela cubista e Tinbergen le diede il colpo di grazia reclutandola nei ranghi dell’«ingegneria sociale’ tra gli appausi e gli «ola» dei politici, eccitati da ogni abracadabra statalista.
È la pretesa di saper prevedere gli eventi futuri, e quindi di poterli evitare con le tecniche appropriate, di domarli, di dirigerli, di guidarli verso scopi nobili e costruttivi, che ha trasformato l’economia in una parodia delle scienze esatte. Gli economisti (che all’origine erano dei filosofi morali, da Adam Smith a Karl Marx, da von Hayek allo stesso Keynes) sono diventati, col tempo, maghi da vaudeville. Puro pensiero magico: se la «struttura economica» del mondo è un oceano in tempesta, essi placheranno le acque agitando le mani sopra il cappello a cono e sprizzeranno lampi dalle dita, come Gandalf nel Signore degli Anelli. E questa «presunta magia», scrive McCloskey, «è sistematica, stereotipata e, a ben guardare, piuttosto semplice. Si tratta di tracciare delle rette che attraversano aggregati di punti, sotto la guida della modellistica teorica, per poi interpretare erroneamente i risultati attraverso la significatività statistica. L’idea è che con un corso di teoria economica e un corso di statistica economica si impara a prevedere il futuro, intascando laute prebende».
Come sempre, il problema che si pone qui non è particolare, cioè specificamente economico, interno alla specialità. Non riguarda soltanto le facoltà universitarie, o gli ospiti dei talk show, gli editorialisti delle pagine finanziarie, i ministri economici che ignorano i fatti e guardano con condiscendenza chi li invoca. È un problema di libertà: l’economia new age, che dagli anni Trenta del Ventesimo secolo (il secolo delle pseudoscienze, del Mattino dei Maghi e della Produzione di merci a mezzo di merci) domina il panorama accademico e politico, è intervenuta negli affari della gente comune, complicandoli (quando va bene) o peggio (nel novanta per cento dei casi). «Non è “ingegneria sociale”. È “ingegneria personale”», scrive McCloskey.
È tempo, per gli economisti, di mettere la testa a posto. È tempo che gl’ingegneri sociali al servizio dei governi non si facciano più illusioni sulla «politica economica» delle burocrazie statali e imparino finalmente la verità su se stessi: sono fallibili. C’è davvero bisogno di ricordare loro «la storiella americana sulla terza delle tre frasi più assurde: “Sono un esponente del governo e sono qui per aiutarla”»?
Diego Gabutti, ItaliaOggi 7/10/2014