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 2014  ottobre 07 Martedì calendario

COME MAI, SE IL PETROLIO COSTA MENO DI 90 DOLLARI, LA BENZINA È PIÙ CARA DI 26 CENTESIMI?


«In questi quattro anni sono stati spesi circa 2.500 miliardi di dollari per la scoperta e sviluppo di nuove riserve di petrolio e gas. La conclusione è che ora sta entrando nuova capacità produttiva frutto di questi investimenti». Parla così Leonardo Maugeri, già manager dell’Eni, oggi docente ad Harvard. «Gli investimenti - continua - sono questa la chiave di lettura che già due anni fa mi faceva prevedere, in anticipo sugli altri, il declino dei prezzi nel 2015. E sta puntualmente accadendo nonostante i focolai di crisi politica che ancora esistono in giro per il mondo: hanno frenato la caduta ma non riescono più a tenere i prezzi alti». I prezzi del greggio, infatti, continuano a flettere sui mercati mondiali. Ieri il Brent è stato trattato a 91,48 dollari il barile, ai minimi dal 2012. Dai livelli di giugno, 115 dollari il barile, la discesa è del 20 per cento. Una frenata che fa senz’altro bene alla bilancia commerciale di casa nostra ma che, ahimè, ha effetti limitati sulle nostre tasche. Dall’inizio di ottobre ci sono stati lievi ritocchi, ma al rialzo, da parte di alcune compagnie (tra queste Esso e Shell). Colpa del dollaro? In parte sì, visto il rialzo della valuta Usa sull’euro (il 6 per cento circa da inizio agosto). In parte non si deve dimenticare che il vero sceicco d’Italia è lo Stato che, tra tasse ed accise, assorbe il 60,7% del prezzo al consumo (benzina verde) con il risultato che, dati di agosto, gli automobilisti italiani hanno pagato in media la benzina 26,2 cent/litro (di cui 1,4 dovuto al maggior prezzo industriale) e il gasolio 24,2 cent/litro (0,1) in più che nel resto d’Europa. Quanto potrà durare l’attuale ribasso del greggio? Una previsione è sempre difficile, stavolta ancor di più, vista la mappa dei conflitti in atto dall’Iraq alla Libia, senza trascurare le tensioni del Venezuela o l’embargo con la Russia. Ma il vero fatto nuovo, in buona parte frutto del boom dello shale gas americano, è la nuova mappa delle rotte del greggio. Gli Stati Uniti, di nuovo grande potenza petrolifera, hanno in pratica azzerato le importazioni dalla Nigeria che fino a tre anni fa era il quinto esportatore di greggio negli States. Lo stesso è successo con il Venezuela: le petroliere che risalivano dall’Orinoco alla California oggi fanno rotta verso la Cina. «E questo spiega - dice ancora Maugeri - la riduzione di prezzo decisa da Riad in questi giorni. Lo ha fatto per rendere più competitivo il suo greggio rispetto agli altri». Non è il caso di illudersi, però. L’Arabia resta il Paese chiave da cui dipende l’andamento del mercato. Un’area su cui gli Usa, seppur indipendenti sul piano delle forniture, non possono mollare la presa. Lo stesso vale per il gas: gli Usa sono ora il primo produttore ma non hanno intenzione di esportare più di tanto: la Russia resta, in prospettiva, quasi insostituibile.