Nicla Panciera, La Stampa 7/10/2014, 7 ottobre 2014
ALESSANDRO TREVES RACCONTA EDVARD E MAY-BRITT MOSER, LA COPPIA DI CONIUGI CHE, CON JOHN O’KEEFE, HA VINTO IL NOBEL PER LA MEDICINA
[Intervista] –
«Sono due scienziati coraggiosi che hanno seguito la loro curiosità e a legarci è un’amicizia fondata su interessi comuni e competenze complementari». A parlare è Alessandro Treves, neuroscienziato della Sissa di Trieste, da 12 anni parte del gruppo di stretti collaboratori dei coniugi Moser.
È lui «l’amico computazionale» a cui spetta il compito di fornire ai colleghi sperimentali i modelli matematici in grado di spiegare come l’attività concertata delle «cellule griglia» mappi perfettamente lo spazio, «ossia in che modo questi neuroni - spiega - estraggono una struttura ordinata meravigliosa ed effimera a partire dagli stimoli sensoriali disordinati e cangianti in arrivo dall’esterno».
Le cellule griglia riescono a fornire all’animale un sistema di triangolazione metrica, creando con le loro attivazioni una mappa corrispondente a griglie esagonali formate da sei triangoli equilateri con al vertice la posizione attuale dell’animale.
È forse la geometria euclidea inscritta nel nostro cervello?
«Ancora non sappiamo se le rappresentazioni neurali dello spazio, acquisite con l’accumularsi dell’esperienza nell’età dello sviluppo, sarebbero le stesse in ambienti diversi dal nostro. Gli animali che studiamo, infatti, vivono in un ambiente euclideo. Per vedere, invece, che cosa accadrebbe in caso di geometrie non euclidee, stiamo studiando animali nati e vissuti in un ambiente sferico oppure iperbolico. Secondo il mio modello, le cellule griglia dovrebbero mappare un reticolo diverso, non più a esagono, ma a pentagono».
Qual è la portata della scoperta delle cellule griglia?
«In alcune patologie, come l’Alzheimer, il primo sintomo è il disorientamento spaziale. Questo avviene perché l’ippocampo, che degenera con il morbo, contiene i “neuroni del posto”, già scoperti da O’Keefe. Scoprire che a rappresentare le informazioni spaziali non sono soltanto i neuroni del profondo ippocampo, ma anche quelli della corteccia entorinale è stata una rivoluzione concettuale. Comprendere a fondo i meccanismi della cognizione spaziale sarà infatti importante per la diagnosi e la cura di molte malattie neurologiche».
Sarà possibile sfruttare queste scoperte anche ai fini dello sviluppo di sistemi di intelligenza artificiale?
«Al momento non siamo in grado di prevedere quanto delle cellule griglia è trasferibile ai robot. I neuroni sono fallibili, ma sono tantissimi, mentre gli agenti artificiali hanno componenti infallibili, ma la loro complessità è inferiore. Con il gruppo norvegese ci stiamo occupando anche di questo aspetto, oggetto di un finanziamento europeo».
Quando si è capito che i Moser stavano scoprendo qualcosa di eccezionale?
«La portata della scoperta era evidente, semmai il margine di incertezza derivava dal fatto che i Nobel per la medicina raramente vengono assegnati alle neuroscienze di sistema e mai, finora, era stato premiato uno studio sull’ippocampo».
Immagino che lei stia ricevendo molte telefonate: questo Nobel è anche un po’ italiano e, quindi, ci fa sentire orgogliosi.
«Questo Nobel è un premio alla cosiddetta “small science”, frutto dell’iniziativa di due giovani norvegesi coraggiosi, ai quali nessuno avrebbe mai consigliato di lasciare Londra e ritornare nel mezzo del nulla, in un piccola città, Trondheim, a qualche centinaio di chilometri dal Circolo polare artico. Era il 1996. Oggi il loro laboratorio conta cinquanta persone. Edward è più teorico e comunicativo, May-Britt adora la vita di laboratorio, ma entrambi condividono costanza, passione e impegno. Sono grandi scienziati dal forte intuito, sanno porre le domande giuste e le “cellule griglia” sono solo uno dei tanti risultati ottenuti in questi anni. Da quell’inizio in solitaria».
Nicla Panciera, La Stampa 7/10/2014