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 2014  ottobre 04 Sabato calendario

INDIA IL CALCIO METTE LE SCARPE BUONE


Se chiedi a un indiano te la racconta così. È il 1950 e la nazionale di calcio riceve un invito per partecipare al Mondiale brasiliano; la federazione, però, all’ultimo decide di rinunciare perché la Fifa voleva proibire ai suoi giocatori di scendere in campo a piedi nudi.
Ora, non è proprio sicuro che il motivo fosse questo. È invece certo, come sostiene lo scrittore Chandrahas Choudhury, che si trattò «del più spettacolare autogol della storia del calcio». Perché da quel gran rifiuto l’India, che era stata inserita nel girone dell’Italia, non è più riuscita a qualificarsi alla fase finale di un Mondiale, né a produrre buoni calciatori. Tanto che oggi, per sdoganare la nuova e ricchissima Indian Super League, si è ricorso a vecchi arnesi dei campionati europei come Nicolas Anelka, 35 anni, e Freddie Ljungberg, 37. E non ce ne voglia Alessandro Del Piero, 40 tra un mese, che fra tutte le star della Isl è sicuramente il più in forma.
La storia del calcio in India comincia negli Anni 50 dell’800, quando i soldati inglesi lo esportano insieme al cricket. Dal 1888 si disputa la Durand Cup, terzo trofeo del mondo per antichità dopo le F.A. Cup inglese e scozzese. Nel 1889, quando ancora in Italia nessuno correva dietro al pallone, a Calcutta c’erano già quattro squadre. Una, il Mohun Bagan, diventerà la prima indiana a sconfiggere una inglese: l’East Yorkshire Regiment. “Il Mohun Bagan non è una squadra, è una nazione torturata che ha appena cominciato ad alzare la testa”, scrisse un giornale.
Se oggi a Calcutta si contano oltre 150 società e 8.500 giocatori è perché sin dall’inizio il calcio attecchì soprattutto lì. Quando dici derby, in India, parli del Kolkata derby, il derby di Calcutta. Lo giocano dal 1925 il Mohun Bagan e l’East Bengal, la squadra dei “nativi” contro quella degli immigrati dal Bengala dell’est, l’attuale Bangladesh. Si è disputato 308 volte e da 30 la sfida si gioca al Salt Lake Stadium, un impianto da 120 mila spettatori (ma nel 1997, quando l’idolo Baichung Bhutia segnò una tripletta, erano in 137 mila).
Grandi numeri per una nazione al 158° posto del ranking Fifa, dietro persino all’isola di Aruba che ha centomila abitanti. Sul perché gli indiani giochino così male a calcio sono state elaborate decine di teorie. La più accreditata dà la colpa al cricket, considerato alla stregua di una religione: in tv le partite della nazionale hanno un’audience di 400 milioni di spettatori. Un’altra fa perno sulla scarsa propensione allo sport degli indiani, che all’ultima Olimpiade hanno preso solo sei medaglie, e nessuna d’oro.

MOMENTO MAGICO
Eppure c’è stato un tempo in cui l’India del calcio non era così scarsa. Siamo negli Anni 50, la golden era. L’allenatore è Syed Abdul Rahim, insegnante innamorato dell’Ungheria di Gusztáv Sebes che traghetta il Paese nel calcio moderno rinunciando al modulo a piramide, il 2-3-5, e ai lanci lunghi all’inglese (intanto, dopo un imbarazzante 10-1 con la Jugoslavia, pure i calciatori indiani si erano convinti a indossare le scarpette). Con lui in panchina le “tigri blu” conquistano un incredibile quarto posto all’Olimpiade del 1956 e due medaglie d’oro ai Giochi asiatici.
Il capitano di quella squadra è Sailen Manna, difensore che le foto dell’epoca ritraggono con i capelli corvini impomatati e pettinati all’indietro. Gioca per 19 anni nel Mohun, ricevendo come stipendio appena 19 rupie, circa mezzo dollaro (chissà cosa ne pensa David Trezeguet, che, al Pune City, per un paio di mesi percepirà un ingaggio a sei zeri). Manna è morto nel 2012, ai funerali hanno partecipato duemila persone e persino l’Economist gli ha dedicato un lungo necrologio. Nell’Olimpo del calcio locale è preceduto soltanto da Mohammed Abdul Salim, che negli Anni 30 sale su una nave, sbarca a Glasgow ed è ingaggiato dal Celtic, diventando il primo indiano a giocare all’estero a livello professionistico (nel frattempo, solo altri cinque ci sono riusciti). Ovviamente scendendo in campo scalzo, con delle garze ad avvolgere giusto le caviglie.
Il vero problema del calcio indiano, che ha un bacino di 1,2 miliardi di abitanti, è che da almeno 50 anni non produce calciatori della pasta di Manna e Salim. Il campione di ieri è Baichung Bhutia, “il regalo di Dio al calcio indiano”. Attaccante, nel ’99 è tesserato dal Bury (Terza Divisione inglese) e poi dal Perak in Malaysia, ma è famoso più che altro per aver vinto l’edizione indiana di Ballando con le stelle e aver rifiutato di portare la torcia olimpica. Quello del presente è il capitano della nazionale, Sunil Chhetri: ha segnato più di 40 gol con le Tigri, ma quando ha provato a emigrare in Usa i Kansas City Wizards l’hanno ricacciato subito indietro. Il campione del futuro sarà, forse, Brandon Fernandes, 20 anni, un Giovinco indiano (è alto 165 cm) che ha fatto provini in diverse squadre inglesi senza trovare nessuna disposta a tesserarlo.

MATERAZZI CON TURBANTE
Se il panorama è questo, ben vengano Luis Garcia e Pirès, Elano e David James, Capdevila, Mutu e Materazzi, gli altri volti noti della Super League (ci saranno anche gli italiani Cirillo e Belardi e l’allenatore Franco Colomba). Il format della Lega voluta da Rupert Murdoch copia quello della Indian Premier League di cricket. Otto franchigie che si sfideranno dal 12 ottobre al 20 dicembre: girone all’italiana, poi semifinali e finale. Per convincere le vecchie glorie a emigrare in India si sono mobilitati ex assi di cricket, star di Bollywood e ricchi industrali. Qualche soldo è arrivato dall’estero: i Della Valle hanno acquistato una quota del Pune e il proprietario dell’Atletico Madrid, Miguel Marín, ha puntato sull’Atlético de Kolkata, che non a caso vestirà la maglia biancorossa. Puntare sui vecchi, guardando ai giovani: ecco l’idea alla base della Isl. Perché se è vero che in India il cricket la fa da padrone, il calcio è già oggi il secondo sport, che i ragazzi praticano più di badminton, hockey su prato e kabbadi. Ogni anno circa 130 milioni di indiani guardano il football in tv, specie Premier e Champions. Club come Manchester Utd, Liverpool e Barcellona hanno aperto delle academy. “Il cricket era lo sport dei padri. Il calcio è quello dei figli”, recita uno degli slogan della neonata Lega. Per un Jamal Malik, il protagonista del film The Millionaire che svolta grazie a un quiz tv, ci sono milioni di ragazzini nati negli slum che oggi sognano di diventare famosi col cricket e domani potranno farlo con il calcio. Come Rajib Roy, 16 anni, cresciuto a Sonagachi, quartiere a luci rosse di Calcutta dove la madre faceva la prostituta. Qualche mese fa il Manchester Utd l’ha invitato ad allenarsi un paio di settimane con la squadra. Come Sailen Manna, come Mohammed Abdul Salim, Rajib ha imparato a giocare a piedi nudi per strada. In fondo, negli ultimi 50 anni l’India del calcio non è molto cambiata.