Carolina Dellonte, Mente & cervello 10/2014, 6 ottobre 2014
EMERGENZA IN VOLO
L’uomo ha sempre sognato di volare. Fu mito e sogno sin dai tempi più antichi, dai «carri degli dei» fino alle «streghe volanti». Riuscire a librarsi nel cielo con macchine capaci di volare ossessionò le menti creative di molti uomini, che arrivarono addirittura a sacrificare la loro stessa vita pur di riuscire in questo intento. Rispetto ad altri progressi tecnologici e scientifici, dal giorno in cui i fratelli Wright nel 1903 rimasero in aria per 12 secondi, il volo ha avuto uno sviluppo rapido e in pochissimi anni l’uomo si è ritrovato proiettato nel terzo elemento alla guida di macchine sempre più sofisticate.
Il volo oggi è diventato una seconda natura per milioni di persone, e si è ormai così profondamente radicato nella nostra vita che è difficile immaginare un mondo senza di esso. La sicurezza costruita intorno a un aereo ne fa il mezzo più affidabile per spostarsi, il risultato di uno sforzo collettivo di tecnologia e di intelligenza che non ha precedenti in altre attività umane.
Eppure, nonostante gli incredibili progressi, il termine «sicurezza del volo» ha il potere paradossale di evocare in modo automatico nella mente di tanti proprio il suo opposto, vale a dire il pericolo. In modo particolare la mente corre verso quello che sembra essere l’elemento più fragile della situazione, il pilota, perché ogni qualvolta avviene un disastro aereo la speculazione dei media sull’errore umano come causa principale dell’incidente fa da linea guida all’immaginario collettivo nell’interpretazione dell’accaduto. Purtroppo questa fragilità viene spesso considerata solo dal punto di vista negativo, ossia mettendola a confronto con la tecnologia, ma la fragilità di «essere uomini» nella capacità di interpretazione della realtà è spesso stata la chiave di svolta nella risoluzione di gravi emergenze.
Le trappole della mente
Alla fine degli anni settanta, a fronte di un notevole aumento degli incidenti, la NASA decise di affrontare il problema; la prima analisi ufficiale fu messa a punto nel 1979, durante un seminario in cui furono valutati e analizzati a fondo tutti gli elementi umani coinvolti negli incidenti di volo, nel tentativo di ridurre gli errori e migliorare la sicurezza. La ricerca della NASA indicava come cause della maggior parte degli incidenti avvenuti fino ad allora il fallimento nelle comunicazioni interpersonali, il fallimento nella leadership e il fallimento nei processi decisionali all’interno della cabina di pilotaggio.
L’identificazione di un modello preciso e costante nel processo decisionale in volo fu una delle prime analisi a interessare gli esperti, poiché emerse che i tre quarti degli incidenti seguivano uno schema decisionale comune: quello di perseverare nella decisione iniziale nonostante indizi e condizioni suggerissero alternative migliori e più prudenti.
Quando l’attività di volo nei cieli aumentò e le condizioni economiche e tecnologiche divennero sempre più impegnative, il fattore tempo in aerei molto più veloci e complessi divenne per i piloti una componente di primaria importanza nel decidere che cosa fare o non fare in una situazione di pericolo. Divenne presto chiaro che la pura abilità tecnica del pilota era raramente l’unico fattore in gioco e che invece le componenti umane e psicologiche erano le protagoniste di molti disastri: oltre il 70 per cento degli incidenti è causato da fattori umani. Fu così istituita una nuova disciplina chiamata Crew Resource Management (CRM), che nei primi anni novanta divenne obbligatoria per tutte le compagnie aeree; in Europa il Regno Unito fu il primo paese ad adottarla, nel 1993. Questo specifico addestramento degli equipaggi si concentrò principalmente nell’accrescere la consapevolezza delle trappole che la mente umana riesce a costruire in situazioni di emergenza, cercando di migliorare la valutazione dei rischi e soprattutto di rendere gli equipaggi più abili nel riconoscere gli errori e fermarne l’effetto a catena.
Decidere in volo
La maggior parte di noi ha difficoltà a prendere decisioni, e spesso manifesta la tendenza a rimandare per evitare stress e fatica. Una volta che una decisione è stata presa ci sentiamo sollevati, anche se è sbagliata o non del tutto appropriata al caso. La tendenza generale, poi, è di rimanere saldamente attaccati a essa, perché cambiare decisione è ancora più faticoso e stressante. Politici, dittatori e generali hanno spesso dimostrato nel corso della storia una predisposizione a questa disastrosa abitudine. Non ultimi anche i piloti, come il comandante del volo KLM 4805, che nel marzo 1977 lanciò a tutta velocità il suo Boeing 747 contro un altro Boeing 747 nella nebbia di Tenerife perché decise di decollare nonostante gli altri due membri dell’equipaggio fossero certi che la torre di controllo non avesse dato l’autorizzazione. La sua immagine di istruttore di prestigio all’interno della compagnia, insieme alla stanchezza, allo stress e alla fretta, gli impedirono di cambiare idea: il risultato fu la morte di quasi 600 persone.
Non solo: spesso il comandante di un aereo è costretto a prendere decisioni velocemente, e devono anche essere le decisioni giuste per quella determinata circostanza. Questo ci porta a concludere che per il nostro cervello la «pressione temporale» è una delle più importanti fonti di stress. La mente umana ha una capacità limitata nell’elaborare informazioni, pertanto il carico di lavoro viene affrontato sempre all’insegna del risparmio cognitivo. L’automatismo, le regole e l’esperienza aiutano il pilota a operare in modo efficiente e soprattutto produttivo, ma quando un’emergenza riduce il tempo disponibile all’azione la gestione delle informazioni che la mente deve affrontare diventa critica.
In un contesto di questo genere le pressioni psicologiche sono tante e a volte non sempre decifrabili, perché l’istinto, le emozioni e la memoria di eventi passati spesso si sommano in frazioni di secondo. In volo il fattore tempo è una componente basilare soprattutto nelle fasi di decollo, avvicinamento e atterraggio, quando le azioni e le decisioni avvengono in tempi molto brevi perché la prossimità al suolo non lascia letteralmente «spazio» ad analisi o lunghe considerazioni.
Momenti critici
Ci sono alcuni momenti molto critici durante i quali il pilota sa che non può sbagliare. In decollo esiste «la velocità di decisione o V1», quella alla quale il pilota deve decidere, in caso di avaria, se andare in volo o fermarsi in pista: superata questa velocità la regola impone il decollo. In atterraggio invece raggiunta «l’altezza di decisione o DH», quota alla quale in caso di pista non visibile o di altro motivo che possa compromettere la sicurezza la regola impone al pilota di risalire (Go-around) e procedere per un atterraggio all’«aeroporto alternato» (definizione tecnica per indicare un aeroporto, scelto in base a caratteristiche di compatibilità con il velivolo e condizioni meteo, da usare in alternativa a quello di destinazione in casi di emergenza).
Queste decisioni vengono prese in pochi attimi, e psicologicamente possono essere difficili da gestire. Basti ricordare l’incidente del Concorde nel luglio 2000: un detrito sulla pista forò una ruota che esplodendo perforò a sua volta i serbatoi. Due motori presero fuoco, ma la velocità di decisione era già stata superata e il comandante decise di decollare senza però riuscire a controllare il velivolo, che si schiantò al suolo. Fece bene a decollare o come alcuni ipotizzarono forse c’era ancora un margine per potersi fermare nonostante la regola imponesse di andare in volo? Di sicuro in una frazione di secondo quel comandante valutò le possibili alternative.
Stesso scenario per l’equipaggio di un volo Polish Air Force del 2010, quando, nonostante il meteo marginale – ossia una condizione molto vicina o uguale ai limiti minimi di operatività pubblicati sulla documentazione di volo – arrivati alla quota di decisione i piloti continuarono la discesa nella speranza di riuscire a vedere la pista. L’aereo finì a pochi metri da essa, perché la pressione psicologica di avere a bordo il presidente e il suo staff, la paura di fare «brutta figura» – il capo dello staff entrò in cabina in quegli ultimi minuti di discesa, incoraggiando ad atterrare perché erano in ritardo – e infine un passato di piloti militari per cui gli ordini sono indiscutibili, li portò a spingersi oltre ogni limite di sicurezza. Un contesto personale e ambientale che impedì ai piloti di gestire una situazione altamente stressante e rischiosa.
Variabili in gioco
I piloti prendono decisioni continuamente, da quando accettano l’aereo firmando lo stato di piena efficienza a quando ricevono il piano di volo, quello di carico e la lista passeggeri, fino alla decisione finale di come e dove atterrare. Ma dove nasce l’errore in cui spesso cadono? Le due vie lungo le quali l’errore si insinua sono solitamente l’interpretazione sbagliata del problema, per cui il pilota prende la decisione errata perché sta risolvendo il problema sbagliato, oppure la corretta interpretazione del problema, che a causa di pressioni esterne (temporali, organizzative, e così via) porta ad azioni sbagliate. Il punto è che anche quando l’emergenza non c’è o quando la decisione da prendere è semplice – come nel caso di rinvio dell’atterraggio per avverse condizioni meteo – a volte subentrano variabili psicologiche che portano la mente a difendere la decisione già presa. Ecco qualche esempio.
L’ambiguità della situazione. I segnali ricevuti possono non essere del tutto chiari, e la situazione può deteriorare velocemente. Il pilota può confondersi su ciò che ricorda perché la situazione può essere nuova o poco conosciuta – per esempio un pilota con poca esperienza nelle regioni artiche o con la neve – e poiché cambiare una decisione è già di per sé stressante e difficile, l’evidenza deve essere sostanziale perché la mente accetti di deviare dal corso d’azione già intrapreso.
La sottostima del rischio. Quando un problema si presenta, la prima valutazione è seguita dall’analisi dei rischi possibili. Se si tratta di una situazione già conosciuta – come atterrare in condizioni di forte turbolenza – la tendenza a volte è di sottovalutarli, perché se in precedenza l’azione effettuata aveva portato a un risultato positivo si crede che anche questa volta si avrà lo stesso risultato. Nei piloti questa sottostima del rischio si associa spesso alla «sovrastima» di se stessi: purtroppo le statistiche ci dicono che, nella maggioranza dei casi, sono proprio i piloti con maggiore esperienza a fare questo tipo di errori.
Il conflitto di interessi. È meglio arrivare in orario e atterrare anche se c’è nebbia o dirottare verso l’aeroporto alternato consumando più carburante e pagando l’albergo a tutti i passeggeri? Sembra una domanda banale, ma la pressione organizzativa ed economica incoraggia atteggiamenti rischiosi e oscura la capacità di giudizio che è fondamentale nel prendere la decisione giusta.
La non valutazione delle conseguenze. Quando la situazione d’emergenza degenera e la pressione del tempo aumenta, lo stress diventa un fattore fondamentale e pericoloso. La pressione può limitare l’abilità del pilota a proiettare nel futuro l’azione che ha deciso di intraprendere e la valutazione delle sue conseguenze, mentre lo stress restringe la memoria, costringendo la mente a rivolgersi a ciò che le è più familiare, ma che in quell’occasione può non essere la soluzione adeguata.
Conflitto tra tecnologia e mente
Sulla tecnologia avanzata vengono espressi pareri contraddittori. All’ammirazione per le prestazioni della scienza informatica si oppone il timore che il pilota sia relegato all’impotente funzione di spettatore dell’automatismo. Ma una cosa è certa: l’estensione della possibilità di operare in sicurezza ad alti livelli di pressione per condizioni meteorologiche, intensità del traffico, velocità e lunghezza dei voli è oggi possibile solo adottando tecnologie avanzate.
Nel fare un parallelo tra il funzionamento del cervello e quello di un computer troviamo differenze sostanziali che possono aiutare a capire meglio il funzionamento mentale in generale e in particolare quello del pilota che interagisce con la macchina. Il funzionamento di un computer si basa fondamentalmente sul confronto di dati in ingresso con quelli presenti in memoria. A questi dati, necessari per le sue elaborazioni, il computer non è in grado di dare un significato. Se i dati in ingresso sono irriconoscibili, il sistema si blocca e non è più in grado di elaborare nulla, come accadde nel giugno 2009 nel volo Air France 447 sull’Oceano Atlantico. Il blocco dei sensori di volo per formazione di ghiaccio portò il computer a non riconoscere più i parametri di quota e velocità: l’autopilota si scollegò e alcuni strumenti diventarono illeggibili. A questo punto i piloti entrarono in una spirale di disorientamento e di incredulità; sbagliando manovra portarono l’aereo per quasi tre minuti e mezzo in un cosiddetto «stallo profondo», prima di schiantarsi nell’oceano.
In altre parole, fecero l’opposto di ciò che si dovrebbe fare in caso di stallo, ossia spingere il muso dell’aereo in avanti e scendere di quota. Nel panico provocato dal non capire che cosa stesse succedendo continuarono a tirare verso l’alto il muso dell’aereo nonostante la voce artificiale del sistema «urlasse» più volte in cabina, correttamente, la parola «stallo». L’avaria di parte della strumentazione li portò probabilmente a non fidarsi più nemmeno di ciò che ancora funzionava.
Fidarsi degli strumenti
L’uomo, al contrario della macchina, non può fermare le proprie elaborazioni, e deve continuare ad andare avanti anche in presenza di dati ambigui e difficilmente riconoscibili. Il computer è ineguagliabile nella velocità di confronto dei dati senza interpretazione e in quella di calcolo, ma l’uomo si dimostra enormemente superiore nell’esplorazione della realtà circostante, tramite una serie irrazionale e a volte casuale di associazioni che danno significato al mondo esterno. L’uomo riconosce ambienti e situazioni sulla base di generiche similarità con esperienze passate e agisce applicando procedimenti immagazzinati in forma di schemi d’azione standardizzati e già sperimentati in occasioni simili.
Questi meccanismi potenti, essenziali alla sopravvivenza e funzionali alla semplificazione di una grande quantità di informazioni e operazioni, rappresentano al tempo stesso il maggior rischio di cogliere una realtà distorta basata su percezioni precarie che per la maggior parte delle volte sono originate dalle emozioni, dalle aspettative e dagli atteggiamenti. In questo senso i piloti sono estremamente sensibili, perché spesso il conflitto tra ciò che ricevono dalla strumentazione e ciò che invece «sentono» come esseri pensanti deve essere risolto in pochi secondi. Nel caso del volo Air France probabilmente entrò in gioco anche quello che per i piloti è l’istinto primario di sopravvivenza, costruito in anni e anni di addestramento, ossia quello di portare sé stessi (e il resto dell’aereo) nella sicurezza del cielo o comunque sopra le cellule temporalesche – dove si erano ritrovati a volare da alcuni minuti – e non quello di portarsi giù verso il suolo o nel cuore del temporale.
In ogni incidente le cause in gioco sono sempre molteplici, ma le componenti psicologiche sono spesso diverse, e meritano di essere esplorate e comprese nel modo migliore possibile per evitare di puntare il dito sulla fragilità dei piloti, quasi fossero immuni, grazie all’addestramento, dal cadere nelle trappole create dalla nostra mente.
Alcune invenzioni hanno addirittura sostituito il pilota al momento di prendere una decisione in caso di rischio imminente. È il caso di uno strumento ormai montato a bordo di tutti i velivoli commerciali e chiamato Traffic Collision Avoidance System (TCAS). Questi piccoli radar scansionano su richiesta del pilota un’area prestabilita intorno all’aereo: non appena intercettano un altro velivolo all’interno della stessa area, confrontano velocità, quota e direzioni reciproche, calcolando in tempo reale un eventuale rischio di collisione. Se il risultato di questo calcolo è proprio una collisione, una voce artificiale avverte il pilota e gli suggerisce quale manovra intraprendere immediatamente: lo stesso farà lo strumento sul velivolo intercettato opposto, ma indicando, ovviamente, il comando inverso. Un aereo che vola alla stessa quota di un altro che sta arrivando in direzione opposta salirà di quota, l’altro scenderà. Eppure, nonostante questo strumento sia così preciso e utile nel contesto decisionale del pilota, le barriere che la mente umana erige quando si deve confrontare con una macchina restano a volte insormontabili.
La tecnologia è estremamente utile, ma non può nulla se l’uomo interviene con i suoi conflitti, le sue paure e le sue decisioni basate su innumerevoli variabili psicologiche. La probabilità che un software commetta un errore è infinitamente piccola rispetto alla probabilità che la mente umana possa sbagliare, e questo è ciò che viene ripetuto continuamente in ogni corso di addestramento: affidarsi sempre allo strumento quando ci sono conflitti interpretativi, fisici e mentali, anche se la mente o i sensi cercano di trascinarci nella direzione opposta.
Il business e i piloti
Per guadagnare l’aereo deve volare, e volare molto. Un aereo fermo su un piazzale non guadagna nulla e brucia ogni minuto, anche a motori spenti, migliaia e migliaia di euro di tasse, assicurazioni, stipendi, manutenzione e permessi. L’aereo guadagna solo stando in aria per molto tempo, e così il pilota si trova oggi a essere una pedina sfruttata il più possibile e mossa prevalentemente da interessi economici. Poiché le decisioni di un pilota, come abbiamo visto, possono essere influenzate anche dai conflitti interni all’azienda, di tipo economico e organizzativo, negli ultimi anni si è cercato di integrare nei corsi sullo studio dei rischi anche i vertici aziendali, obbligando i dirigenti a partecipare insieme ai piloti a queste riunioni di analisi, in modo da renderli consapevoli delle pressioni che spesso gli equipaggi devono sostenere.
La tecnologia intanto ha fatto passi da gigante da quando nel 1957 David Warren inventò le «scatole nere» per decifrare le cause di un incidente, fino ad arrivare a sistemi sempre più sofisticati di interpretazione e prevenzione dei rischi, con una migliore applicazione della strumentazione e delle procedure, per adeguare nelle emergenze il numero di azioni da compiere alle reali capacità dell’uomo di eseguirle. Gli investimenti nella ricerca, i corsi CRM e il continuo confronto fra ciò che viene progettato e ciò che nella realtà accade o è già accaduto, incentivano l’organizzazione di progetti sempre più vicini all’uomo, alle sue capacità mentali e soprattutto ai suoi limiti. La stessa impaginazione dei manuali di volo è oggetto di continuo approfondimento, in modo che siano maggiormente comprensibili nei concitati momenti in cui un pilota deve affrontare un’emergenza.
Con la totale perdita di potenza dei motori che ha provocato l’incidente del fiume Hudson a New York, il comandante dirà che sì, avevano iniziato a leggere la procedura d’emergenza per cercare di riaccendere i motori, ma era lunga tre pagine e loro avevano potuto leggere solo le prime tre righe.