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 2014  ottobre 06 Lunedì calendario

IL CASO DELLA PENNA A SFERA

Esplorare il crimine è questione di scienza o siamo ancora nel campo dell’intuizione artistica? Il fatto è che spesso laboratori, scienziati ed esperti si trovano a fare i conti con l’imprevedibile e il casuale, e allora, insieme alle capacità di raccogliere prove, occorre sempre coltivare una sana e concreta cultura del dubbio.
Proviamo qui ad analizzare un caso esemplare, raccontato nell’articolo A cause célèbre: the so-called ballpoint murder, pubblicato sul Journal of Forensic Sciences.
Il fatto succede nel maggio 1991. Un ragazzo, è uno studente, va a pranzo dalla madre ogni domenica, una signora di 53 anni che vive da sola. Ci va anche quel giorno, ma trova la donna a terra, nel soggiorno, priva di vita. Il giovane chiama aiuto, e la polizia, che arriva subito, oltre alle macchie di sangue nota anche una ferita, in corrispondenza dell’arcata sopraccigliare destra.
L’autopsia conferma che è quella ferita ad aver causato la morte della donna, e ciò che l’ha provocata è una comune penna a sfera, che è penetrata nell’orbita perforando l’occhio e attraversando l’encefalo sino al lobo posteriore sinistro. Ma come può essere accaduto? La polizia pensa a un omicidio, perché non è facile ipotizzare una caduta accidentale, e un corpo estraneo che finisce per trapassare orbita ed encefalo. D’altro avviso sono gli oculisti forensi, che analizzano la casistica e scoprono che dal 1848, 21 soggetti hanno riportato lesioni proprio con questa dinamica. In 12 casi la ferita ha interessato l’occhio, cinque hanno perso la vita. Difficile, dunque, ma possibile.
Per la polizia si tratta comunque di un omicidio, lo chiamano «il delitto della penna a sfera», e indagano soprattutto sui familiari della donna, senza però alcun risultato concreto.
Trascorrono cinque anni, quando il portiere di un campus legge casualmente del «delitto della penna a sfera» e ricorda alcuni studenti che conversavano di un delitto perfetto. Per realizzarlo si poteva usare una balestra, e proprio una penna sfera al posto del dardo. Tra i ragazzi c’era anche lui, il figlio della donna uccisa.
Di lì a poco arriva la testimonianza di una psicologa che da qualche tempo seguiva il giovane: anche a lei era arrivata la confessione dell’omicidio. Per la polizia è sufficiente, il ragazzo viene arrestato e processato nell’ottobre 1995; la pena è 12 anni di carcere. È a questo punto che arriva il colpo di scena.

Tiro al bersaglio
Il caso è così insolito da attirare l’attenzione di un gruppo di medici legali olandesi, che sull’argomento iniziano una serie di esperimenti usando crani di maiali. Costituiscono due gruppi di studio, e con diverse balestre lanciano penne a sfera come dardi, per poi misurare i risultati. In tutti i casi, una volta colpito il bersaglio e penetrata nell’orbita, la cannuccia della penna si blocca per attrito, e il refill si sfila di qualche centimetro proseguendo per inerzia la sua corsa, spinto da abbrivio e forza cinetica.
Ma il caso della donna trovata morta nel maggio 1991 è diverso. La Bic penetrata nel cranio ha il refill ben contenuto dalla cannuccia. Significa che la penna non può essere stata sparata da una balestra.
Il ragazzo ha mentito, per una patologia psichiatrica che fa di lui un mitomane, ma un mitomane innocente. Nel gennaio 1996 viene prosciolto e torna in libertà, toma a farsi strada l’ipotesi dell’incidente casuale e il «delitto della penna a sfera» diventa il «caso della penna a sfera», uno degli esempi più celebri di serendipity, la scoperta casuale di un fatto, mentre si sta indagando alla ricerca della spiegazione o della verifica di altri eventi.
Questo caso ben si presta a sottolineare quanto sia importante la cultura del dubbio nel settore relativamente nuovo dei «processi decisionali».

Decisioni a rischio
Durante i processi investigativi devono essere assunte decisioni che riguardano numerosi aspetti. Il decision making è perciò aspetto centrale di qualunque indagine criminale. Una delle abilità fondamentali di ogni investigatore consiste nella capacità di assumere decisioni che possano essere giustificate e motivate a terzi, siano colleghi, superiori o magistrati. A dispetto della loro importanza, in genere le decision making skill non sono presenti nei percorsi formativi di un investigatore.
Il primo problema è che gran parte delle forze di investigazione orienta le proprie decisioni sulla base dell’esperienza personale, accumulata con il lavoro di anni oppure in qualche misura «tramandata» dai colleghi più anziani.
Questo conduce inevitabilmente ad alcuni rischi. Il primo riguarda l’investigatore con un limitato bagaglio di conoscenze pregresse, portato perciò a valutare il caso secondo una prospettiva forzatamente ristretta, spesso senza averne piena consapevolezza.
Il secondo rischio riguarda la natura inconscia delle regole operative con cui si affronta un caso. I personal bias sono poi gli errori legati alla presunzione, al pregiudizio, perché ciascuno di noi è influenzato da preconcetti riguardanti per esempio aspetti culturali, economici, sessuali e razziali. I bias verificazionisti intervengono quando le indagini si muovono nella convinzione che vi sia un solo sospettato. Concentrarsi su quel soggetto può condurre a escludere ogni altra interferenza, nella sola ricerca di conferme all’ipotesi di partenza.
La ipersemplificazione o la ipergeneralizzazione, ovvero l’assunzione di un singolo aspetto dilatandolo a rappresentazione del tutto, sono poi errori tanto deprecabili quanto frequenti nell’esperienza investigativa.
Detto della casualità degli accadimenti, della doverosa cultura del dubbio, accennato al campo dei processi decisionali, è facile capire quanto sia determinante, nel mondo delle investigazioni criminali, l’integrazione di competenze differenti.
Prevenire è meglio che curare
E per ribadire il concetto prendiamo in esame un settore dell’investigazione affascinante e trasversale: la threath assessment, la valutazione delle minacce. La minaccia è un atto che può situarsi in campi differenti, in ambito privato, come nel caso dello stalking, all’interno di un’azienda, di una scuola, o può provenire da un gruppo terroristico; e assume caratteristiche diverse, giungendo attraverso telefonate, lettere, Internet.
Occuparsi di minacce non significa limitarsi a una generica previsione di rischio, perché la minaccia è già qualcosa di concreto, di oggettivo, un atto con una sua forma e un suo contenuto che possono illuminare sul movente e le caratteristiche dell’autore.
Negli Stati Uniti, presso la Behavioral Analysis Unit dell’FBI, è stato avviato dal 2007 il primo database sulle minacce, l’analisi delle quali sembra aver soppiantato il precedente sforzo centrato sulla costruzione di profili criminali. Nella gestione di una minaccia esistono regole fondamentali. Si parte dal riconoscere il bisogno, dalla considerazione che soggetti specifici possano accumulare rabbia o desiderio di vendetta rispetto ad altri soggetti o istituzioni. Si attiva perciò la necessità di un progetto che affronti questa minaccia, che non rappresenta mai un atto isolato, ma un processo che evolve. Naturalmente occorre addestrare i soggetti che ricevono minacce perché restituiscano alle forze investigative le segnalazioni senza banalizzazioni, senza enfatizzazioni e in termini assolutamente tempestivi.
La creazione di un sistema di raccolta e archiviazione delle notizie è fondamentale, e i dati devono afferire da tutte le strutture, da tutte le agenzie, da tutte le fonti possibili. Metodi validi, un’approfondita conduzione della ricerca, una gestione flessibile, la capacità di comunicare con le persone oggetto di minacce sono ulteriori elementi imprescindibili. La letteratura specialistica anglosassone ha identificato tra coloro che portano minacce due grandi categorie. La prima è quella degli hunter, i cacciatori, che sin dal primo contatto progettano un’azione diretta. La seconda è quella degli howler, traducibile come coloro che strepitano senza arrivare all’azione, ma che non per questo devono essere esclusi dall’investigazione.
Oltre a quelle terroristiche e informatiche, le minacce più frequenti sono quelle che rientrano tra i comportamenti di prossimità: prendono di mira familiari, figure pubbliche, colleghi di lavoro. In questi casi, ad anticipare gli attacchi ci sono spesso informazioni sottovalutate e riprese solo a posteriori. E per produrre risultati validi, per prevenire situazioni drammatiche e garantire la sicurezza, evitando di cadere in trappole cognitive, l’integrazione delle forze investigative e di contrasto rappresenta l’unica arma vincente.
Massimo Picozzi