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 2014  ottobre 05 Domenica calendario

«IO, SOPRAVVISSUTO AL CAMPO 14»

«Più di 6mila turisti americani ed europei hanno varcato nel 2014 la frontiera più militarizzata al mondo. Il governo cerca valuta pregiata, i viaggiatori il brivido del posto inviolabile, e un tuffo nella Guerra fredda Anni ’50. Ecco le (complesse) procedure per partire...»: così, qualche giorno fa, un prestigioso quotidiano online pubblicava un allegro servizio di viaggio in Corea del Nord. D’altronde siamo il Paese dell’allegrezza, degli allegri politici che elogiano il regime di Kim Jong-un per la "pulizia svizzera", salvo poi dimenticarsi dell’altra tremenda pulizia: quella politica, civile, umana, in nome della quale si sono internate nei campi di prigionia quasi 200mila persone, due generazioni di uomini, donne, anziani e bambini, la cui "colpa" è di essere dissidenti o sospettati di tradimento o genericamente scomodi o solo parenti degli accusati. Secondo Human Rights Watch e Amnesty International, il livello di rispetto dei diritti umani in Nord Corea è uno dei più bassi del mondo, mentre per l’Onu, che ha recentemente costituito una commissione di indagine, gli abusi sono sistematici e capillari e spaziano dalla detenzione arbitraria alla tortura, dal negato diritto al cibo alla soppressione della libertà di pensiero e movimento, dal sequestro di persona alla discriminazione.
Il "testimone numero uno" dell’inchiesta è Shin Dong-hyuk, l’unico uomo che, a oggi, sia riuscito a scappare dai gulag della Repubblica Popolare Democratica di Corea: era il 2005, Shin non aveva ancora compiuto 22 anni, passati tutti peraltro nel tremendo Campo 14. Riuscì a oltrepassare il filo spinato ed elettrificato camminando sul cadavere del suo compagno di fuga, che si era gettato contro la recinzione ed era morto sul colpo per la scossa. «Ma del mio passato rammento soprattutto le torture subite quando avevo 14 anni e il mio primo ricordo risale a quando ne avevo 4: fu un’esecuzione pubblica»: parla piano Shin, che incontriamo a Milano, un sabato pomeriggio. Alza spesso gli occhi al soffitto, scrutando chissà quale infausto cielo sopra di sé. Sembra assente, distratto, insensibile; è il suo corpo esile e glabro a raccontare per lui una storia di sevizie e abusi: le braccia sono arcuate a causa dei lavori forzati; la schiena e i glutei portano le cicatrici delle ustioni inflittegli; ha un buco in pancia perché fu appeso al soffitto con un gancio nella carne; le caviglie sono deformate per i ceppi; il dito medio della mano destra è mozzato; gli stinchi sono ancora deturpati dalle bruciature del recinto elettrico. Eppure, il momento più tragico per lui è stato veder impiccare la madre e il fratello, colpevoli di aver trasgredito uno dei "dieci comandamenti" infernali del campo. Era stato lui a denunciarli, e anche quella volta rimase impassibile e freddo.
«Sto ancora cercando di diventare, dalla bestia che ero, un uomo»: nascere in un lager, e viverci per la maggior parte della propria vita, significa essere privati di tutto – sentimenti, dignità, umanità. «Fino all’adolescenza non immaginavo neppure che potesse esistere un mondo al di fuori del campo. E adesso ho passato troppo poco tempo fuori per poter dire di essermi adattato. Sto imparando, ma è difficile: fuori è tutto così complicato e veloce. E comunque sogno, un giorno, di poter ritornare nei miei luoghi di infanzia, da uomo libero e insieme ad altri uomini liberi, quando la dittatura finirà». Oggi Shin risiede in Corea del Sud e gira il mondo per far conoscere a tutti la sua storia e «contribuire alla liberazione di decine di migliaia di persone ancora prigioniere», come ha scritto Blaine Harden in Fuga dal Campo 14, ora pubblicato in Italia da Codice edizioni. «Nonostante le pressioni internazionali, anche da parte delle Nazioni Unite, niente è ancora cambiato in Corea del Nord», ammette il giovane. «Purtroppo, temo che la diplomazia non sia sufficiente e nemmeno una rivoluzione popolare o un intervento militare: serve una risoluzione internazionale; altrimenti la storia si ripete, e i genocidi si spostano soltanto da un Paese all’altro. La violazione dei diritti dell’uomo è endemica, bisogna estirpare il male alla radice».
Quando, poi, si azzarda il paragone tra i gulag nordcoreani e i campi di concentramento nazisti o sovietici o cambogiani, Shin precisa: «Non si possono equiparare le cose, perché allora il mondo poteva non sapere, ma in Nord Corea tutti sanno, e anche fuori dal Paese la situazione è nota, se ne parla tanto, ma poi non si fa mai niente». Addirittura il Campo 14 è visibile su Google Maps, e copre una superficie estesa quanto la città di Los Angeles. «La differenza tra la mia patria e il resto del pianeta è che là la gente è impegnata solo a sopravvivere, a non morire di fame, a cercare di non essere torturata. Mentre ora sto imparando cosa significa vivere, lavorare, avere relazioni». Il trauma affettivo è stato per lui devastante, sebbene inizi a rendersene conto soltanto adesso, a quasi 32 anni: «Non so molto di me; non saprei dire che tipo di uomo io sia. Ogni giorno scopro qualcosa di nuovo del mio carattere, i miei pregi e difetti. Però credo che i valori siano gli stessi, e che valgano per tutti gli esseri umani. Purtroppo il male è più contagioso del bene e l’avidità è insita nella nostra natura. Io ho difficoltà ad aprirmi e a fidarmi, nonostante le tante e generose dimostrazioni d’affetto. Sono ancora restio a lasciarmi andare». D’altronde è cresciuto alla scuola della spietatezza e della brutalità e l’educazione sentimentale gli è stata impartita con un misero vocabolario di parole: invidia, sospetto, delazione, paura, fame, obbedienza, fatica, annientamento di sé. Adesso Shin sta tentando di costruirsi una nuova grammatica affettiva, «anche se non so cosa voglio "fare da grande". Però ho un sogno: che la Corea del Nord sia libera», intanto sfoglia un libriccino truculento sulla Prima guerra mondiale, e torna a guardare in aria, a contemplare il soffitto, quando gli si chiede conto di Dio. «Se guardo la realtà, Dio non esiste, non lo vedo. Ma se guardo dentro di me, sento che c’è, e questo mi aiuta a credere di essere sulla strada giusta, in cammino lontano dal male». Non teme che le vittime di oggi saranno i carnefici di domani? «Sì, c’è la possibilità che sia davvero così. Non c’è soluzione; possiamo solo cercare di minimizzare il rischio». Per tornare uomo, Shin ha anche cambiato nome: ora è impenetrabile e imperturbabile come tutti quelli che hanno subito l’orrore e che sono scesi nell’averno, o forse come gli dei olimpici che non hanno più paura che il soffitto cada loro addosso.
Camilla Tagliabue, Domenica – Il Sole 24 Ore 5/10/2014