Rocco Cotroneo, Corriere Economia 6/10/2014, 6 ottobre 2014
PETROLIO, CONTRORDINE RAGAZZI, IMPARATE LA LEZIONE AMERICANA
Il petrolio sta finendo, resteremo tutti a piedi. Un’intera generazione - tra gli anni ’70 e ’90 - è cresciuta con questa certezza. Come oggi avviene con il riscaldamento globale o i danni delle sigarette: è consenso generale, lo dicono gli scienziati, ripensiamo ai nostri comportamenti o finiremo male. Invece non era vero niente. Il petrolio non è finito, anzi, non ne abbiamo mai avuto così tanto, in attesa di essere estratto e raffinato. Ne possiedono in abbondanza i Paesi ricchi e quelli poveri, giace sotto i mari, i ghiacci, i deserti e perfino dove l’abbiamo trovato finora: appena più in là, o più profondo. Detto questo, resta intatto lo spazio per i nostalgici dell’austerity e delle profezie sulla fine dell’automobile: poiché il petrolio è ancora tantissimo, il mondo potrebbe continuare allegramente a sporcarsi e riempire l’atmosfera di gas senza darsene conto. Le paure di oggi come nemesi di quelle di quarant’anni fa. Per ragioni opposte.
Errori di calcolo
Dove hanno sbagliato, dunque, i profeti della fine dell’oro nero? Come spesso accade nella storia, in testa al mix di ragioni c’è la tecnologia. Decenni fa non era facile immaginare l’evoluzione dell’industria petrolifera. Un po’ come quel famoso boss dell’Ibm quando disse che nel mondo c’era mercato appena per una manciata di computer, o l’industriale che rifiutò il brevetto del telefono perché lo riteneva inutile. Le cronache recenti del settore sono ricche di annunci sulla «più grande scoperta del decennio».
Si contendono il titolo gli Stati Uniti, il Brasile, il Messico, l’Australia e persino la Scozia, qualche giorno dopo il referendum per l’indipendenza che basava il suo argomento più forte proprio sulla ricchezza petrolifera. Nella classifica 2013 delle scoperte di nuovi giacimenti ci sono sei Paesi africani nei primi dieci posti, una speranza per lo sviluppo di questo continente. Alcune di queste novità hanno riflessi geopolitici enormi, come la possibile indipendenza energetica degli Usa dal Medio Oriente. Anche per questa ragione molti degli scenari degli ultimi tempi vanno presi con le pinze. Come si è esagerato nel pessimismo, ora il gap tra gli annunci e la realtà può essere grande.
Almeno tre sono le rivoluzioni tecnologiche che hanno permesso di trovare petrolio dove prima non si poteva arrivare: quella shale messa a punto negli Stati Uniti; l’ offshore profondo, oltre gli strati di roccia in fondo al mare, sul quale si è specializzato soprattutto il Brasile; la capacità di estrarre dalle sabbie bituminose, presenti soprattutto in Canada e in Venezuela.
Il «nuovo» petrolio
Lo shale oil è ottenuto dalla frantumazione di rocce che conservano petrolio nei pori (qualcosa di assai simile avviene con il gas). Questa tecnica consente anche trivellazioni «orizzontali», un tempo impensabili. È invasiva per l’ambiente, ma permette una produzione abbondante in poco tempo. Secondo l’ultimo rapporto dell’Iea, Agenzia internazionale per l’energia, grazie a questa tecnologia gli Usa supereranno tra qualche settimana la produzione dell’Arabia Saudita, per la prima volta dal 1991. In una manciata di anni la produzione americana è praticamente raddoppiata.
Nel 2015 agli Usa basterà importare appena il 21 per cento dei consumi interni (era il 60 nel 2005!). Memori degli errori del passato, gli esperti ammoniscono che la festa dello shale oil potrebbe durare poco e dopo il 2020 le importazioni di greggio tradizionale torneranno a crescere. Nella classifica delle riserve convenzionali, gli Stati Uniti sono appena al 14esimo posto. Ma le stime sostengono che nel mondo di shale oil ce n’è cinque volte in più del greggio che siamo abituati a conoscere.
Impatto
L’ offshore di nuova generazione può cambiare il destino di Paesi come il Messico (dove il petrolio era dato in rapido esaurimento appena pochi anni fa) e il Brasile, che sogna l’indipendenza energetica e un futuro da gigante esportatore. Sul pre-sal al largo di Rio de Janeiro (si chiama così perché il petrolio è sotto uno strato di roccia e sale) sono circolati numeri assai diversi. È la più grande scoperta nella sua categoria, ma l’enorme costo di produzione è un fattore chiave: estrarlo costa attorno ai 45 dollari al barile, e se i prezzi di mercato dovessero scendere sotto i 70-80 dollari la redditività del pre-sal andrebbe in crisi. Enormi costi di produzione attendono anche le sabbie dell’Orinoco, in Venezuela. Il greggio qui conservato viene già conteggiato come riserva a tutti gli effetti, proiettando il Paese sudamericano al primo posto al mondo, davanti all’Arabia Saudita. Ma il suo destino è incerto, perché il rigido monopolio statale del Paese non ha le risorse sufficienti, e l’ideologia chavista ha impedito finora una presenza di peso delle compagnie straniere. Trattasi di greggio assai pesante, difficile da lavorare: lo stesso problema ha il Canada, che ha riserve simili al Venezuela e negli ultimi anni ha superato in potenzialità produttori storici come Iran, Irak e Russia.
È presto per sapere se la mancata profezia sulla fine del petrolio - e il boom recente di scoperte - avrà davvero influenza sugli equilibri mondiali. In una recente inchiesta il Wall Street Jornal fa notare che l’evoluzione tecnologica andrà avanti ancora a lungo, ma la scoperta di sempre nuovi giacimenti non sono un buon motivo per smettere di pensare ad un mondo senza petrolio. Al contrario: senza l’affanno dell’ armageddon energetico, il mondo può pensare a fonti di energia più pulite in modo più razionale.