Maria Pia Fusco, la Repubblica 5/10/2014, 5 ottobre 2014
Da ragazzo avrebbe voluto vestire i panni di Iago o di Amleto, “fare tutto Shakespeare”, ma la strada può essere lunga e tortuosa se arrivi da una famiglia operaia e vivi alla periferia di Londra: “Non è roba per gente come noi, mi ripeteva mio padre”
Da ragazzo avrebbe voluto vestire i panni di Iago o di Amleto, “fare tutto Shakespeare”, ma la strada può essere lunga e tortuosa se arrivi da una famiglia operaia e vivi alla periferia di Londra: “Non è roba per gente come noi, mi ripeteva mio padre”. Così quello che per molti resterà per sempre la Bernadette di “Priscilla”, prima è stato una vera star del cinema anni Sessanta e della Dolce Vita, poi un seguace della meditazione nell’India anni Settanta e infine, oggi, a un’età indefinita, “quel genere di attore che ho sempre sognato di essere. Dotato, tra l’altro, di una voce inconfondibile”. Terence Stamp MARIA PIA FUSCO ROMA N«ELLA MIA VITA c’è un prima e un dopo Federico Fellini». Terence Stamp lo dice spesso nelle interviste, e tra i suoi ricordi più cari c’è il loro primo incontro all’aeroporto di Fiumicino. Era il 1967, l’occasione era Toby Dammit, uno degli episodi del film collettivo da Edgar Allan Poe Tre passi nel delirio che Fellini avrebbe poi diretto. «Avevo appena finito un western, avevo i capelli neri, lunghi, incolti, l’espressione annebbiata, all’epoca fumavo molto, e fumavo di tutto. Fellini mi guardò a lungo e scoppiò in una risata. “Perfetto. Resterai a Roma con me per un bel po’ di tempo”. E io pensai a quant’era stato stupido Peter O’Toole». Già, perché Fellini e O’Toole erano amici, e ogni volta che il regista andava a Londra si incontravano e cercavano un’occasione per lavorare insieme. Almeno fino a quando Fellini non gli mandò la sceneggiatura di Toby Dammit. « A pochi giorni dalle riprese, nel cuore della notte, Federico riceve una telefonata da Peter. “Quel Toby è un personaggio maledetto, non lo voglio fare. Goodbye”. Così Fellini chiamò un’agenzia di casting londinese e chiese di indicargli gli attori più decadenti e bastardi che ci fossero su piazza. Arrivai io». Terence Stamp è nato a Stepney, periferia di Londra, da una famiglia operaia, il 22 luglio del 1939, ma l’anno in realtà varia dal ‘38 al ‘40 e lui sfugge alla domanda diretta sull’età. «Sono molto vanesio, mi piace lasciare il mistero». Nel 1967 era al massimo della popolarità, una vera star del cinema anni Sessanta. Si era imposto al primo film, Billy Budd di Peter Ustinov, 1962, il marinaio angelico e ribelle di Melville gli aveva procurato una candidatura all’Oscar come attore non protagonista. Poi Il collezionista ( 1965), l’anno dopo Modesty Blaise, la bellissima che uccide — «Monica Vitti, travolgente, riusciva a farmi ridere anche la mattina all’alba» — e ancora Via dalla pazza folla, e Poor Cow di Ken Loach. Tutti film di successo, legati ai fermenti di quegli anni, in cui Stamp interpretava personaggi ambigui, spesso negativi, psicopatici, maligni. Era l’attore del momento ed era riuscito a sconfiggere la sfiducia di suo padre. «Da ragazzo guardando la tv imitavo i personaggi e dicevo di continuo “io posso fare meglio di quello”. Ammiravo solo Laurence Olivier, per il resto ero arrogante, mi sentivo il più bravo di tutti. Mio padre era stanco delle mie fantasie: “Gente come noi non ha niente a che fare con quell’ambiente, piuttosto studia e pensa a un lavoro serio”, mi ripeteva. Quando mi sono iscritto alla scuola di recitazione ho lasciato casa e famiglia e per mantenermi ho fatto di tutto». Per Toby Dammit si preparò con impegno — «fu allora che smisi di fumare» — e con Fellini conobbe Roma, il cinema e i salotti. «Federico mi fece leggere la sceneggiatura de Il viaggio di Mastorna anche se ero troppo giovane per il ruolo, lui voleva Mastroianni. Sarebbe stato un film geniale, la storia di un uomo che è morto ma non sa di essere morto e pensa di essere vivo. Mai dimenticata». A Roma conobbe anche Pasolini ed entrò nel cast di Teorema, interpretando il misterioso, enigmatico straniero che si insinua nella famiglia dell’industriale ed esercita su tutti un’ambigua seduzione. «Non c’è stato un vero rapporto con lui, era un uomo chiuso, rigoroso e del resto sul set la mia attenzione era tutta per Silvana Mangano. Ero un bambino quando vidi Riso amaro e da allora lei diventò per me la donna per eccellenza. Fu lei a scatenare le mie prime fantasie sessuali». Il declino inizia nel ‘71 con l’interpretazione di Arthur Rimbaud in Una stagione all’inferno di Nelo Risi. «Gli anni Sessanta erano finiti e con loro ero finito anch’io. Ricevevo offerte indegne, per me che avevo lavorato con i grandi. Decisi di lasciare il campo, comprai un biglietto aereo per un giro del mondo: partenza da Londra, naturalmente prima classe». Secondo le cronache pettegole in realtà fu un’altra la ragione della fuga. Lui che aveva vissuto storie d’amore con le donne più belle del tempo, da Julie Christie a Brigitte Bardot, non sopportava la rottura con la top model Jean Shrimpton dopo una relazione tumultuosa — tanto più che a lasciarlo fu lei. Oggi non smentisce, né conferma. Sorride: «Sono partito perché ero stufo di aspettare la telefonata dell’offerta giusta. Quanto alle donne le amo, sono cresciuto con mia madre, le zie e le loro amiche. Non smettono mai di incuriosirmi, neanche ora, alla mia età, ed è forse proprio la curiosità a impedirmi di fermarmi con una di loro» (per la cronaca: un solo matrimonio, tardivo, con Elizabeth O’Rourke, 2002-2008). Come che sia, dopo i Sixities e Londra per Stamp i Settanta sono l’India. «Anche qui c’entra Fellini. Una sera, a Roma, mi portò a cena da una contessa che voleva conoscessimo il maestro indiano Krishnamurti, un piccolo signore che sorrideva e diceva cose che non capivo, cose come “Quando un’aquila vola non lascia tracce”. Fellini si divertiva un mondo e quando il maestro mi invitò a fare una passeggiata mi incoraggiò ad accettare l’invito. Camminando per Roma io, che ero timidissimo, non so perché cominciai a parlare, a fare mille domande. Krishnamurti mi zittì, mi prese la mano. “Guarda quell’albero”, mi disse. Guardai, era un albero. Lui sorrideva, io sorridevo. “Guarda quella nuvola”. Lui sorrideva, io sorridevo — ma non capivo il senso, e mi sentivo stupido. Bene, fu quello stesso stato d’animo che una volta partito da Londra dopo essere passato dall’Egitto fece sì che io mi fermassi in India». Qui il passaggio da un Ashran all’altro dura sette anni. Stamp cambia nome, diventa Swami, lontano dal cinema si immerge nel silenzio e nella meditazione, impara a nutrirsi con ciò che gli offre la terra. «Ero felice e quieto, avevo perso la cognizione del tempo. Seguivo corsi di ogni genere. Stavo studiando “tantric sexual experience”, ovvero come separare l’orgasmo dall’eiaculazione, quando arrivò un telegramma del mio agente, Richard Donner. Mi voleva in Scozia». Il film era Superman, Stamp sarebbe stato il generale Zod che si contrappone a Marlon Brando. L’incontro con Brando fu imbarazzante. «Ero appena arrivato, ancora vestito in arancione, stralunato. Brando mi fissava serissimo. “Sono stato in India”, mormorai per giustificarmi. E lui mi chiese: “Come sono le ragazze indiane?”», ricorda Stamp imitando la voce di Brando, così come prima aveva imitato quella di Fellini, e poi del maestro indiano. La voce è per lui un elemento essenziale. «La curo da cinquant’anni, da quando al mio primo film un critico scrisse che la mia “esile voce” era adatta al personaggio. Esile voce? Un duro colpo per me che volevo fare Iago e Amleto e tutto Shakespeare. Così mi sono messo a studiare finché gli insegnanti non hanno avuto più nulla da insegnarmi. Ora la uso nei trailer di molti film, dalla serie Twilight a The Hobbit, in una versione della Bibbia ho dato persino la voce a Dio. Si vede che gli esercizi di respirazione in India sono stati utili, oggi la mia voce è molto riconoscibile, anche dai giovani, ed è un bel modo per entrare in contatto con le nuove generazioni di spettatori». Come attore, di nuovo non conosce pause. Da Vendetta di Frears al film che ne ha consacrato la rinascita, Priscilla, la regina del deserto; da L’inglese di Soderberg a Star Wars e Wall Street solo per citarne alcuni. In Italia, dopo Una canzone per Marion con Vanessa Redgrave uscito nei mesi scorsi, lo vedremo nell’atteso film di Tim Burton, Big Eyes. Lui però puntualizza: «Sono un altro Terence Stamp. Oggi leggo la sceneggiatura, vado sul set, indosso un costume e sono il personaggio, senza alcuno sforzo. Direi che grazie ai silenzi dell’India sono diventato l’attore che ho sempre sognato di essere». © RIPRODUZIONE RISERVATA FELLINI CHIESE A UN’AGENZIA LONDINESE IL PIÙ DECADENTE E BASTARDO SU PIAZZA. ARRIVAI IO. AVEVO I CAPELLI LUNGHI E L’ESPRESSIONE ANNEBBIATA. SCOPPIÒ A RIDERE E DISSE: RESTERAI A ROMA UN BEL PO’ LA VITTI RIUSCIVA A FARMI RIDERE ANCHE ALL’ALBA CON PASOLINI INVECE NON C’È MAI STATO RAPPORTO. DEL RESTO SUL SUO SET NON AVEVO OCCHI CHE PER LA MANGANO: DA QUANDO BAMBINO VIDI RISO AMARO È SEMPRE STATA LA DONNA PER ECCELLENZA NELL’ASHRAM FREQUENTAVO UN CORSO DI “TANTRIC SEXUAL EXPERIENCE” QUANDO IL MIO AGENTE MI TELEFONÒ PER PROPORMI UN LAVORO: TORNAI PER FARE SUPERMAN CON MARLON BRANDO