Benedetta Craveri, la Repubblica 5/10/2014, 5 ottobre 2014
Da Villar Perosa a Roma da Park Av. a Marrakech “L’ultimo cigno”, come la chiamò Truman Capote, racconta il suo lungo romanzo di formazione Di un gusto Marella Agnelli Nelle mie case BENEDETTA CRAVERI COS’ERA IL GUSTO, prima che l’estetica moderna ne delimitasse il campo alla sfera artistica? Era, a detta generale, “quel certo non so che”, quel quid ineffabile e misterioso che implicava tutta un’arte di vivere e che conferiva a talune persone, al loro particolare modo di parlare, di muoversi, di vestirsi, di comportarsi in società, come ai luoghi che avevano creato a loro immagine e somiglianza, una grazia speciale
Da Villar Perosa a Roma da Park Av. a Marrakech “L’ultimo cigno”, come la chiamò Truman Capote, racconta il suo lungo romanzo di formazione Di un gusto Marella Agnelli Nelle mie case BENEDETTA CRAVERI COS’ERA IL GUSTO, prima che l’estetica moderna ne delimitasse il campo alla sfera artistica? Era, a detta generale, “quel certo non so che”, quel quid ineffabile e misterioso che implicava tutta un’arte di vivere e che conferiva a talune persone, al loro particolare modo di parlare, di muoversi, di vestirsi, di comportarsi in società, come ai luoghi che avevano creato a loro immagine e somiglianza, una grazia speciale. E se La Rochefoucauld si ostinava a salvare il gusto, era perché il “vero gusto” non consentiva mistificazioni e rinviava alla verità ultima della persona. Non è dunque sorprendente che, invitata, fotografie alla mano, da sua nipote, Marella Caracciolo Chia, a spiegare da dove traeva origine quel certo non so che che ne aveva fatto un’icona dell’eleganza e impresso alle sue case e ai suoi giardini un marchio inconfondibile, Marella Agnelli abbia vinto il consueto riserbo per mostrare come il suo gusto facesse parte del suo modo di essere, inseparabile dalla sua storia personale. Il titolo stesso del libro, Ho coltivato il mio giardino, non rinvia alla frase conclusiva di Candide con cui Voltaire ci incoraggia a cercare in noi stessi e nel perseguimento dei nostri interessi l’equilibrio necessario per affrontare la vita? Figlia di Filippo Caracciolo di Castagneto, un diplomatico discendente da un’antica famiglia dell’aristocrazia napoletana, e di Margaret Clarke, una «bella, intelligente e complicata» americana del Middle West, Marella nasce a Firenze nel 1927. La sua memoria affettiva è già essenzialmente visiva e registra delle immagini per lei decisive: il letto a baldacchino dei genitori, il disordine artistico e fiorito della vecchia villa dove passerà la sua prima giovinezza; il giardino all’italiana, dalle alte siepi di alloro; il gusto sapientemente semplice della colonia anglosassone — i famosi “anglobeceri” — che aveva perseguito tra le due guerre un sogno estetico entrato a far parte della storia della città. Come pure la casa estiva vicino a Bressanone, con le poltrone di vimini, i fiori selvatici e le rose canine. Immagini formative del gusto a venire. Non meno formativa l’educazione liberale e antifascista del padre e la sua passione per il paesaggio, che ne farà uno dei soci fondatori di Italia Nostra. L’apprendistato artistico vero e proprio Marella lo compie nei primi anni Cinquanta, a New York, come assistente del celebre fotografo Erwin Blumenfeld; è con lui che impara a educare lo sguardo. La foto struggentemente bella del figlio Edoardo a sedici anni mostrerà bene la bravura raggiunta. Nel 1953, con il matrimonio con Gianni Agnelli, affronta un nuovo apprendistato, quello di moglie dell’erede della più grande industria automobilistica italiana. Se ne è innamorata a diciott’anni e “cristallizzerà” stendhalianamente su di lui — per usare l’immagine di uno scrittore che le è caro — un sentimento destinato ad accompagnarla per tutta la vita. Non c’è ombra di bohème artistica nella fastosa dimora degli Agnelli a Corso Matteotti, e Marella si applica con disciplina — un tratto distintivo del suo carattere — a imparare i doveri di padrona di casa. Per sua fortuna, il maeclettico che unisce a un forte senso della tradizione l’amore per la modernità e la passione per le arti visive, scommette sul suo talento e le affida il compito di rinnovare la casa di campagna di Villar Perosa che, dagli inizi dell’Ottocento, è il luogo di ritrovo della famiglia Agnelli. È lì che Marella inizia la sua nuova avventura artistica. È coadiuvata dal famoso decoratore francese Stéphane Boudin e dall’ancor più famoso architetto di giardini, l’inglese Russell Page. Da entrambi impara che il gusto non basta e deve andare di pari passo con lo studio, la conoscenza della storia, delle arti applicate, della botanica. Russell Page la mette anche in guardia «dal lato oscuro di una grande fortuna», dandole un suggerimento di cui lei saprà tenere conto: «Bisogna imparare a essere al servizio di qualcosa di più alto». Per la casa di Frescot, sulla collina torinese, Marella sceglie l’architetto e scenografo Renzo Mongiardino, il cui gusto fantasiosamente è in sintonia con il suo. È lei a disegnare tutti i tessuti per gli arredi, ispirandosi alla tradizione decorativa piemontese. E quando un importante imprenditore tessile di Zurigo le chiede di disegnargli una collezione di stoffe, Marella scopre improvvisamente di non essere più una dilettante. Se suo marito le dà carta bianca per interni e giardini, egli condivide con lei l’interesse per l’arte d’avanguardia. Prima di comperare Frescot si sono lanciati nell’ipermoderno, facendosi costruire una casa altamente tecnologica — Villa Bona — dove raccogliere la loro collezione di arte contemporanea. E a Milano, Marella fa la conoscenza di Gae Aulenti a cui l’Avvocato ha affidato il compito di ristrutturare il suo appartamento di via Brera, tutto giocato sull’illuminazione. Hanno la stessa età e l’amicizia e la collaborazione che si instaura subito fra di loro finirà solo con la morte di Gae. Sempre più sovenrito, te, sono però i quadri a determinare lo stile delle nuove case di Marella che continuano a susseguirsi in una vita in continuo movimento. Affidato al designer newyorchese Ward Bennett l’appartamento romano, che dalla collina del Quirinale domina la città, viene ristrutturato in uno stile minimalista. Il soggiorno, dal soffitto altissimo, ha l’aspetto di un grande e luminoso studio d’artista, fatto apposta per ospitare le tele di Balla, Fontana, Schlemmer e i bronzi di Manzù e di Marini, mentre la sala da pranzo è decorata da Mario Schifano. Nell’anticamera interamente rivestita di lastre di travertino il più bello e perverso dei quadri di Balthus fa da vis-à-vis a una scultura di Giacometti e a una antica statua di Iside. Sono, invece, una serie di capolavori del Secessionismo viennese a ispirare disegni e colori dell’arredamento della casa di Sankt-Moritz, fatta sempre in collaborazione con Mongiardino agli inizi degli anni Settanta. Mentre, dieci anni dopo, nell’appartamento newyorchese di Park Avenue, come indica Marella, «la decorazione del salotto, con i divani e le poltrone di velluto rosso fuoco e la stoffa a righine blu e bianche alle pareti, era volta a esaltare una serie di dipinti di Matisse e una tela di Balthus meravigliosamente surreale». A New York gli Agnelli sono da sempre di casa, frequentano le gallerie e gli artisti, si fanno ritrarre da Andy Warhol, hanno moltissimi amici. Scorrono nel libro le foto celebri di Gianni e Marella assieme al presidente Kennedy e sua moglie durante le regate della Coppa America nel 1962, e quella al Black and White Ball organizzato da Truman Capote al Plaza nel 1966. Sono tra le coppie più ammirate e ricercate del jet-set e il New York Times ha incluso Marella nella lista delle donne più eleganti. Ma nel libro incontriamo una frase rivelatrice: «La moda è una forma di espressione ma anche uno scudo. Ci si presenta al mondo con un’immagine creata da un’altra persona ed è una sensazione piacevole». Se in questa vita così intensa, al fianco di un marito, a dir poco, impegnativo, Marella si fa un punto d’onore di dare il meglio di sé in tutte le circostanze, è il giardino il suo luogo dell’anima. In un bel giardino — scrive — si ricava «molto più che un piacere estetico», può comunicare «un senso di profonda pace e di apertura mentale. Nel corso della mia vita, nei momenti difficili, il contatto con la natura, con la pianta viva, mi è stato e continua a essermi di grande conforto». Le immagini conclusive parlano da sole. Dopo la morte del figlio Edoardo e quella del marito, a cui hanno fatto seguito dolorosi conflitti familiari, a ottant’anni compiuti Marella trova la forza morale di reagire al dolore e celebrare la vita, creando a Marrakech il più bello dei suoi giardini. «Quello che più si avvicina alla mia idea di felicità».