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 2014  ottobre 04 Sabato calendario

I BICIPITI DELL’ECONOMIA USA E LA DEBOLEZZA UE

«Non soffriamo dei reumatismi della tarda età, ma delle crisi di crescenza di cambiamenti troppo rapidi, delle doglie dell’aggiustamento fra un’era e l’altra. La rivoluzione delle tecniche sta procedendo più rapidamente di quanto non si riesca a creare posti di lavoro». Così scrisse John Maynard Keynes nel 1930, parole che risuonano ancora: molti temono che il progresso tecnico distruggerà più posti di lavoro di quanti ne generi.
M a l’America va smentendo questo assunto. I dati di ieri sulla creazione di posti di lavoro ci dicono che dal punto più basso raggiunto nella Grande recessione sono stati quasi 10 milioni i nuovi posti creati; e non si è trattato solo di rimpiazzare i posti distrutti dalla recessione: negli ultimi vent’anni sono stati 24 milioni i posti di lavoro creati, malgrado l’inciampo della più grave crisi economica dagli anni Trenta. E il risultato netto della creazione di posti di lavoro non dà conto appieno del dinamismo sottostante: per esempio, i 248mila posti di lavoro creati in settembre sono la differenza fra milioni di posti in più e milioni di posti in meno. Anche se i tassi di occupazione e di partecipazione sono diminuiti rispetto a qualche anno fa, questa riduzione riflette in parte la tendenza verso un maggiore tasso di scolarità; e, nella misura in cui la riduzione sia dovuta ai "disoccupati scoraggiati", questi costituiscono una riserva cui attingere quando l’economia continui a crescere.
Questa prova di forza del mercato del lavoro americano ha spinto il dollaro verso un ulteriore apprezzamento. Le stime degli economisti dicono che una rivalutazione del 5% equivale a un aumento di mezzo punto dei tassi di interesse. Anche se i tassi-guida rimangono fermi - per un «tempo considerevole» recita l’ultimo comunicato della Fed, anche se forse alla prossima riunione l’aggettivo cadrà - diventa sempre più chiaro che i tassi Usa sono destinati a salire dai livelli anormalmente bassi prevalsi negli ultimi anni. Una risalita che è fisiologica e che riflette l’abbrivio dell’attività in America.
Non vi sono ragioni per cui l’economia americana non possa continuare a crescere. Altre misure di utilizzo della forza lavoro, diverse dal tasso di disoccupazione, segnalano che nel mercato del lavoro c’è ancora "capacità inutilizzata"; così come c’è ancora notevole margine nella capacità produttiva di fabbriche e capannoni. Le imprese americane hanno profitti alti e situazione finanziaria (troppo) buona, e non manca quindi il carburante per investire. Mentre continua senza soste un progresso tecnico che offre opportunità di innovazione non ancora sfruttate, in un contesto di mercati del lavoro flessibili e di vibranti "spiriti animali".
Diventa anche sempre più sconsolante il parallelo fra i bicipiti dell’economia americana e i flaccidi muscoli di quella dell’Eurozona. È vero che la forza del dollaro potrebbe dare una marcia in più ai Paesi dell’euro per quanto riguarda l’export. Ma bisogna ricordare che l’Eurozona, pur essendo un’economia meno chiusa di quella statunitense - la quota di export (extra area euro) è intorno al 27% del Pil, doppia di quella americana - trae la maggior parte della domanda dal suo interno. Ed è proprio la domanda interna che langue e schiaccia l’economia europea nella stagnazione.
Una stagnazione cui fa da sfondo lo scontro politico in atto, dopo la decisione unilaterale della Francia di non rispettare i sentieri di riduzione del deficit concordati in precedenza. L’Italia, che ha, come ha detto Matteo Renzi, un problema di "reputazione", si è accodata in modo meno eclatante, supportata anche da una situazione di fondo delle finanze pubbliche che, per quanto riguarda i flussi, è senz’altro migliore di quella francese. Un economista marziano direbbe che Francia e Italia fanno bene a non obbedire ciecamente ai dettami del Fiscal Compact. E aggiungerebbe, sommessamente, che, perché la situazione non degradi in un dialogo fra sordi fra "maestrine" e scolaretti, c’è bisogno di una iniziativa forte per raddrizzare i termini del diverbio. Magari mettendo sotto accusa formale la Germania che, secondo le regole europee sugli squilibri macroeconomici eccessivi, è chiaramente in deroga, a causa del persistente e anomalo avanzo corrente, che segnala una insufficienza di domanda interna.
Fabrizio Galimberti, Il Sole 24 Ore 4/10/2014