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 2014  ottobre 04 Sabato calendario

Venezia rievoca a Palazzo Fortuny il mito della donna che affascinò D’Annunzio e Man Ray diventando un’icona per i maestri del secolo Casati La divina Marchesa prima musa del ’900 QUIRINO CONTI «SE non si può aspirare al grazioso, si tenda almeno al grottesco»

Venezia rievoca a Palazzo Fortuny il mito della donna che affascinò D’Annunzio e Man Ray diventando un’icona per i maestri del secolo Casati La divina Marchesa prima musa del ’900 QUIRINO CONTI «SE non si può aspirare al grazioso, si tenda almeno al grottesco». Così, mentre con un colpo di pennello univa zigomo e tempia in una sgargiante virgola di rouge, Diana Vreeland, ineguagliabile direttrice di Vogue America, indottrinava un’impietrita ospite del suo boudoir sulla mascheraturaconcetto nella quale si calava ogni giorno. Trascinando al cuore degli anni Sessanta la consapevolezza creativa di Luisa Casati – la stupefacente marchesa trasformista, antesignana di ogni genere di arte performativa che per un trentennio farà di lei il più generoso committente-soggetto di qualsiasi forma di ritratto (e autoritratto). Travalicando movimenti e tendenze. Lei, la tendenza-misura di ogni sua apparizione-performance: visionaria viaggiatrice del Tempo, incarnazione di identità perdute e di ritualità millenarie. Ora la mostra La Divina Marchesa (a Venezia, Palazzo Fortuny, fino all’8 marzo 2015 ideata da Daniela Ferretti, a cura di Fabio Benzi e Gioia Mori) racconta il più evidente esemplare di belle dame sans merci o di Core (regina degli Inferi), come, dal 1903, divenuto suo amante, la chiamerà D’Annunzio. In un’esistenza – dissipata e senza misura – che da ricca, imbronciata borghese, erede di una fortuna accumulata in un angolo della laboriosa Lombardia industriale, marchesa per matrimonio (e dandy per istinto), farà di lei lo spettacolo degli spettacoli in uno stile di vita perfettamente intonato al suo aspetto e al suo volto: mutevole il primo, immobile come una maschera, il secondo: «Medusa o tigre, quando sorride pare che morda» (de Montesquiou). Certo favorita da una stagione persa dietro «esseri strani, in mondi notturni e sottilmente perversi». Come la sua ombra (Böcklin) mentre solcava in una gondola – un affilato bisturi – le acque nere come l’inferno delle notti veneziane. Ed è così che viene percepita dall’élite artistico-culturale che la stringe simile a una mirabilia ovunque appaia: «La sola donna che mi abbia sbalordito» (D’Annunzio); «Una chimera moderna e futurista» (Martini); «Il bel serpente del paradiso terrestre» (Cocteau); «Versione surrealista di Medusa» (Man Ray). Ma anche «Venere del Père-Lachaise ». E poi quella dedica mirabile per verosimiglianza, «alla grande futurista marchesa Casati, ai suoi occhi lenti di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata» (Marinetti). Insieme a infinite altre definizioni dipinte, scolpite, fotografate, o solo condensate in abiti da lei commissionati: con un solo desiderio, espresso senza ambiguità: «Voglio essere un’opera d’arte vivente». Ed è stupefacente come – dopo una giovinezza nella sana, noiosa quiete di Villa Amelia, sul Lago di Como; dopo un matrimonio, nel 1900, con il marchese Camillo Casati – chissà per quali percorsi o visioni, da un giorno all’altro inizi il suo ministero estetico tra Roma, Parigi, Venezia e Capri, lei che non recita, non canta, non danza, trasformandosi nel più travolgente spettacolo del proprio tempo. Luisa Casati, discendente elettiva del Divino Marchese, narrava e costruiva su di sé trame e racconti arditissimi per i quali allestiva scenari e fondali (le sue case), autrice, scenografa, costumista e coreografa della sua stessa rappresentazione; oltre che unica e assoluta, solitaria interprete. In contesti comunque che erano purtroppo quelli del tempo ( fêtes galantes, tableaux e masquerades). Di fatto, vi si miscelavano arti visive, danza, teatro, letteratura, per una specie di proto-happening anni Sessanta, una body art di lusso praticata su un corpo costruito allo scopo. Come annotava ridendosela Giuliano Briganti, del genere che piace a sarti e omosessuali: magro, ossuto, slanciato, testa fiammeggiante, volto di biacca, e quegli occhi: «Immobili, di smalto, di mica, vitrei e dilatati per l’uso di belladonna». Che – si diceva nel suo ambiente – se si fosse scostata una maschera vera e propria, ne sarebbe apparsa un’altra, pietrificante, terribile e più artificiosa e immobile della prima. Contornata da levrieri tinti, corvi albini, ghepardi ingioiellati e boa constrictor, Luisa Casati è stata l’argomento di ogni artista di quella modernità. Intessendo con ciascuno storie suggerite dalle sue trame e dalle sue regie: «Venga la sera del plenilunio», telegrafava al luciferino D’Annunzio, «avrò il costume d’argento », citando così un Poiret del 1913. Con Fortuny, Baxt ed Erté, couturier prediletto e correligionario per molte sortite. Come quando, dal “maifinìo” Palazzo dei Leoni, trascinò in piazza San Marco i suoi ospiti in costume solo per rivivere per una notte, in quello spazio, un quadro del Canaletto. Tingendo l’aria dei colori di quel tempo perduto e dell’opera. Dopodiché perse tutto, come nelle storie più appassionanti. In fuga e inseguita dai creditori, finì a Londra, dove visse di espedienti. Senza pentimenti e patetismi. E persino qualche rigurgito di follia creativa. A settantasei anni, dopo l’ennesima seduta spiritica, se ne andò. Svillaneggiata da Cecil Beaton che, pretendendo di fotografarla al peggio, non ci riuscì. Sulla sua tomba si legge: l’età non può avvizzirla né l’abitudine rendere stantia la sua infinita varietà (Shakespeare, Antonio e Celopatra). © RIPRODUZIONE RISERVATA L’ALLEGORIA Federico Beltrán Masses La nuit d’Ève ( 1929) LA GRANDE TELA Romaine Brooks: La marchesa Casati (1920 circa) IL DIPINTO Mario Natale Biazzi Luisa Casati LA FOTO CON DEDICA Gabriele D’Annunzio fotografato da Guelfo Civinini, firmato nel 1923 MAN RAY La marchesa Casati ( 1922) IL RITRATTO A destra, Augustus Edwin John: La marchesa Casati ( 1919) LA CERAMICA Renato Bertelli: Marchesa Casati (1920 circa)