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 2014  ottobre 03 Venerdì calendario

IL LIBERTINO CHE MANGIAVA OSTRICHE SUL PATIBOLO

I nobili circondavano in silenzio una grande coppa di cristallo in cui era imprigionato un grosso rospo, mentre un orribile satanista salmodiava: «Santo angelo, caro angelo, l’inferno trionferà?». La bestia fece un salto e i presenti si misero in ginocchio. Allora apparve il diavolo o meglio un essere nudo, barbuto e pallidissimo, privo di organi sessuali che sentenziò: «Vittoria e sfortuna!». In quelle due parole erano riassunti il passato e il futuro dell’unico che non si era inginocchiato, l’uomo più seducente della corte di Francia, ArmandLouis de Gontaut Biron, duca di Lauzun, detto più semplicemente il “Bel Lauzun”.
Anche Lauzun come il diavolo o chi per lui era molto pallido e, benché fosse noto per la sua squisita cortesia e la sua inesauribile piacevolezza, sui suoi ritratti non appare mai quel sorriso che erra sulle labbra dei suoi contemporanei nelle tele del Settecento. Ma non solo in questo il duca fu un precursore. In lui si fondono senza scontrarsi il secolo al tramonto e l’alba del successivo, la voluttuosa saggezza del 700 e il romanticismo dell’800.
Nelle memorie – Avventure d’amore e di guerra, Castelvecchi, pp. 179, 17,50 euro – piene di madri devote o ruffiane di ragazze disponibili, non c’è traccia di quella dell’autore, morta tre giorni dopo la sua nascita, nel 1747, presumibilmente per i postumi del parto. In questo silenzio va forse cercata l’origine della carica affettiva con cui questo libertino, ben lontano dagli eroi delle Relazioni pericolose di Laclos, visse tutte le sue vicende amorose più importanti. Un atteggiamento preromantico, come il pallore del “Bel Lauzun” che non gli impediva di godere dei piaceri più lievi ampiamente offerti dalla società del Settecento. L’uomo più affascinante, raffinato e coraggioso dell’epoca non era un cinico Valmont né un sensuale Casanova ma viveva drammaticamente i suoi innamoramenti al punto da sputare sangue nei momenti di crisi. Mentre racconta queste vicende il suo linguaggio non ha l’enfasi del romantico, ma conserva, senza rinunciare alle passioni, l’ironia verso la vita e verso se stesso. Per questo Stendhal si era entusiasmato di queste pagine: «Che bella cosa le memorie di un uomo lucido che vedeva attraverso le cose!».

La moglie imprigionata. Il giovanotto, figlio di un padre compìto quanto limitato, aveva assimilato in fretta i precetti della vita di corte più dissipata ed elegante d’Europa. In un ambiente in cui amare la propria moglie era considerato volgare, Lauzun poteva tranquillamente detestare la dolce, ricchissima e virtuosa Amélie che, adolescente, aveva fatto esclamare Rousseau: «Che creatura incantevole!». Più scettica l’anziana Madame du Deffand sospettava che dietro la sua riservatezza di Amélie ci fosse ben poco.
Razionale ma per nulla arido, anzi sempre pronto a infiammarsi, Lauzun non si limitava all’arte astratta della seduzione narrata da Laclos, ma si metteva a rischio con i sentimenti. Sarebbe stato troppo semplice approfittare dell’ingenuo innamoramento di una fanciulla, come di un momento di debolezza di una regina. per questo forse il momento più alto della carriera di Lauzun, il favore di Maria Antonietta, sarebbe diventato anche l’origine di gran parte delle sue disgrazie. Incuriosita dai pettegolezzi sulle innumerevoli avventure del duca, Maria Antonietta lo aveva ammesso nella sua cerchia più ristretta. La regina e il libertino cavalcavano insieme e conversavano per ore. Ma quel favore, avversato e invidiato da tutti, era destinato a durare solo due anni. Malgrado la prudenza del duca i cortigiani furono presto allarmati dai riguardi con cui la regina lo trattava e dal suo costante rifiuto di lasciarlo partire per una delle tante guerre in corso. Ma è difficile valutare la profondità del suo rapporto con la capricciosa sovrana. Probabilmente, se Lauzun dice la verità, è stata proprio la sua prudente sordità ai sentimenti della regnante ad affrettare la sua caduta. Però potrebbe benissimo avere taciuto la sua conquista per un senso del tatto che aveva al massimo grado. La sua caduta dal cuore della regina era stata preparata e seguita da ogni sorta di voci. A quel punto, impoverito e caduto in disgrazia, aveva preso la tradizionale via della nobiltà, quella delle armi. Si era coperto di gloria in Senegal e poi contro gli inglesi, a fianco della rivoluzione americana.
Lauzun era un ufficiale abile e straordinariamente coraggioso, destinato a scontrarsi prima ancora che col nemico con il ben più temibile coacervo di interessi, rivalità, odi e incapacità dell’esercito. Dovunque andasse quell’elegantissimo cortigiano riportava insperate vittorie nelle circostanze più difficili, ma a corte i nemici riuscivano sempre a occultarle o a sminuirle. Tuttavia il duca raggiunse la più grande felicità nella relazione con un altro genio della seduzione, la deliziosa marchesa de Coigny, sempre al centro di un turbine di corteggiatori. Il sigillo della dama, una rosa insidiata da un nugolo di insetti, riportava la scritta: «Ecco cosa vuole dire essere una rosa!». Benché a trentadue anni si sentisse invecchiato e provato dalle campagne militari, Lauzun l’aveva corteggiata instancabilmente, anche se la marchesa aveva ceduto solo dopo uno strategico tradimento dell’esausto spasimante.
Profondamente ferito dal voltafaccia della regina e dall’ingratitudine della monarchia per le capacità più volte dimostrate in guerra, Lauzun, che era stato l’emblema delle virtù e delle debolezze dell’Ancien Régime, si era schierato apertamente con la rivoluzione. Agli Stati Generali aveva scherzato, commentando l’abolizione del feudalesimo: «Signori chissà cosa abbiamo fatto?». Si era naturalmente schierato con un vecchio amico, il duca d’Orléans, presto ribattezzatosi Philippe Egalité. Laclos, sempre vicino al duca, deve avere osservato bene Lauzun, così simile e al tempo stesso così diverso dai suoi personaggi, tanto abile nelle relazioni umane, quanto incapace di cogliere la doppiezza politica di Orléans. Tuttavia, malgrado le vittorie militari di Lauzun, il suo nome era troppo legato al passato per potere passare indenne. Come se non bastasse aveva contro di lui gli agenti segreti della monarchia, gli stessi probabilmente che l’avevano osteggiato con la regina e ora, infiltrati tra gli oltranzisti, complottavano contro i traditori della monarchia.
Intanto aveva imparato il linguaggio ridondante del giacobinismo con la stessa facilità con cui aveva appreso quello della corte. Basta guardare la lettera con cui chiede la liberazione della moglie, imprigionata dopo un incauto soggiorno all’estero. «Cittadino presidente, un fedele soldato della repubblica osa domandare ai rappresentanti del popolo di portare il loro sguardo sulla posizione di una donna che un momento di delirio espone alla disgraziata possibilità di essere cacciata dal seno della patria». Amélie venne liberata, ma presto tornò in carcere e sarebbe stata ghigliottinata sei mesi dopo il marito. Per colmo della disgrazia ebbe come compagna una delle più note amanti di Lauzun che passava il tempo a cantare.

Sicura stupidità. Quando il duca d’Orléans, spaventato dagli effetti dei tumulti da lui foraggiati si era rifugiato in Inghilterra, Lauzun era rimasto coraggiosamente al suo posto, lontano dall’amatissima Coigny, emigrata su suo consiglio a Londra. Analogamente non esitò a schierarsi contro i rivoltosi quando il suo reggimento di ussari si ribellò al grido «Viva il re! Viva la gioia!». Una reazione molto diversa dalla «gioia quasi universale» destata, riferisce nei suoi rapporti l’ex beniamino della regina, dall’inasprirsi della politica dopo la fuga del re. Per non ingelosire l’amante, aveva scelto un’attrice senza qualità. A chi glielo rimproverava, replicava: «Ah se sapeste quant’è stupida e quanto è comodo! Si può parlare davanti a lei delle cose più importanti con la sicurezza più assoluta».
L’uomo che aveva affrontato tante battaglie militari e amorose accolse l’arresto con grande calma, pur sapendo che significava una condanna a morte. Intorno a lui cadevano tutte le figure del mondo in cui aveva brillato. La nobiltà che aveva contribuito con i suoi vizi allo scoppio dell’insurrezione, dimostrava un singolare coraggio al momento di salire sul patibolo, ma Lauzun come al solito era destinato a distinguersi anche in questo campo. Al processo si limitò a sorridere ascoltando la sentenza capitale. Però, prima di salire sulla ghigliottina, si fece portare una buona bottiglia e una dozzina di ostriche che assaporò lentamente. Poi, vedendo il boia, gli disse: «Cittadino, permettimi di finirle». Quindi gli offrì un bicchiere di vino bianco: «Bevi, devi avere bisogno di coraggio col mestiere che fai».