Edoardo Vigna, Sette 03/10/2014, 3 ottobre 2014
IL “MIKA FACTOR” CONTRO IL BULLISMO: «A SCUOLA MI TIRAVANO LE LATTINE. IO NON LI PERDONO, SO COME BATTERLI»
IL “MIKA FACTOR” CONTRO IL BULLISMO: «A SCUOLA MI TIRAVANO LE LATTINE. IO NON LI PERDONO, SO COME BATTERLI» –
«Ero iscritto alla Westminster, a Londra, una delle scuole più antiche e prestigiose d’Europa. Per arrivare in aula, però, dovevo attraversare il campus, dietro l’Abbazia». Curatissimi prati all’inglese, lindi vialetti. E una masnada di ragazzotti in divisa verde. Che quando vedono passare l’undicenne Michael Holbrook Penniman Junior lo deridono, lo umiliano. «Davanti a tutti i passanti, mi tiravano lattine di Coca e altra roba sulla schiena. Il rettore sapeva che per me era più facile aspettare che tutti entrassero in aula. Perciò, di fatto, ero autorizzato ad arrivare in ritardo a ogni lezione. Ma io non dimenticherò mai chi mi ha fatto quelle cose. E non perdonerò mai. Né credo che uno debba farlo. I bambini pensano che le loro azioni non hanno conseguenze, che tutti dimenticano o perdonano, perché questo è ciò che viene loro insegnato. Stronzate. E, comunque, quel male prima o poi ti si ritorce contro...». C’è un sorriso beffardo, negli occhi di Mika, il nome con cui oggi conosciamo – con il volto di una super popstar globale – il ragazzino di allora: così diverso dagli altri, in un’età in cui l’imperativo è omologarsi. «Un giorno, un insegnante mi convoca, con l’idea di aiutarmi. “Che cosa fai, per provocarli?”, mi chiede. Ero così arrabbiato... A un certo punto, però, riuscii a rispondere: “Loro sono idioti, ma la loro “scusa” è che hanno 15 anni. Qual è la sua?”. E questa fu la fine della conversazione. Io non so che cosa scateni il bullismo. Forse è paura, della libertà altrui. Quel che so è che ci si può – e ci si deve – difendere».
Da quando il suo “personaggio” è esploso in Italia – come giudice di X Factor edizione 2013 – l’abbiamo scannerizzato, ascoltato, radiografato. Abbiamo scoperto che è mezzo libanese (come mamma Jonni, una donna solare spesso in viaggio accanto a lui) e mezzo americano (come Michael, il papà diplomatico). Che è cresciuto fino a nove anni a Parigi, e poi a Londra. Che è gay, senza “timori” di dirlo: anzi, ne ha ampiamente parlato. Che è dislessico, e ha scelto da piccolo, fra i propri modelli – d’arte, di vita – il nostro «antisnob» per eccellenza, Dario Fo. Ma, prima di ogni altra cosa, ci siamo resi conto che tra tanti “personaggi” televisivi, lui in realtà è una “persona”. Vera. «Ho 31 anni, vivo “in the shadow of the great divide”, quel periodo di grazia che va fino ai 38 anni, in cui tutto è permesso».
È a Milano, di nuovo, per “giudicare” i giovani d’oggi nell’edizione di X Factor 2014, in cui seduce l’Italia sempre di più. «Piaccio? Non so perché». Si ferma a riflettere: dice di pensare «in inglese, ma spesso in francese e ora anche in italiano». La sensazione è che non voglia mai buttare una risposta “tanto per...”. «Forse piace il fatto che non ho paura di dire esattamente ciò che penso. Quando sono contento, non ho paura di esprimerlo. Lo stesso quando penso di essermi sentito una m... L’importante è farlo in un modo intelligente. La verità è che ho imparato presto la differenza fra essere trattato con superiorità e non esserlo. Ho potuto scegliere. Così ora io non lo faccio. E non ho neppure ossequio per l’età in sé. Ce l’ho per la grandezza, il talento, la conoscenza. E per chi ha saputo fare qualcosa. Ma parlo con chi ha 70 anni allo stesso modo con cui parlo a chi ne ha 7».
Affermazioni tranchant come questa meritano un approfondimento. Che affondano nella pur breve biografia di un trentenne. «Ho cominciato a lavorare a 10 anni: le mie risposte alla vita sono state sempre rapide. A 9 anni mi hanno cacciato da scuola, al Lycée Français di Londra. E ho dimenticato tutto: a scrivere, leggere, ma anche a suonare, cosa che mi riusciva bene, e a leggere la musica». Dislessico, insomma. «Sì, mi ci avevano fatto diventare. Un’insegnante di francese. Era intollerante e aggressiva, come persona e come docente. Mi trattava male, con sufficienza. Alla fine sono stato buttato fuori. Io, non lei». Mika si ferma a riflettere. Forse a ricordare.
A passeggio per Hyde Park. «Mia madre mi disse: “Non riesci a frequentare la scuola, non parli con nessuno. Non vuoi andarci più?”. No, non voglio. “Che cosa vuoi fare?”, mi chiese. “Andare al parco”, fu la risposta. Pensava fossi autistico». «Ok, allora vai al parco», concluse la mamma. Ma non finì lì. Mika cominciò a girellare per Hyde Park, a Londra. «Senza una meta né un obiettivo. Ogni giorno. Però lei mi sentiva cantare. Un giorno mi disse: vai al parco, ma in cambio devi studiare canto. E reimparare a suonare il piano. Pensava: se riprende con le note, ce la farà anche con la parola. Chiamò un insegnante di musica, un russo appena scappato dall’Urss, che – disperato – mi “passò” a sua moglie Alla».
Alla era un’ottima cantante d’opera. Impose la disciplina sovietica al piccolo Mika. Due ore al giorno, tutti i giorni. «In sei mesi sono arrivato alla Royal Opera House, a cantare. Un’opera di Strauss. È stato il mio primo lavoro. Era dura, ed ero terrorizzato, ma persone di 5060 anni si rivolgevano a me come a un professionista di 30. Pensavo: “Mi pagano e sono gentili. A scuola, ragazzi della mia stessa età mi trattano da schifo”».
La scelta era fatta. E la musica è una bacchetta magica (così nascono le stelle...). «C’era solo questa, nelle due stanze che noi cinque figli condividevamo, anche quando vivevamo in una casa grande...». Non era, dunque, come nella pubblicità di Sky per il nuovo X Factor con il “miniMika” circondato da memorabilia... «Nella mia camera non c’erano poster, fotografie, computer games: nulla. Solo un piccolo teatro, un modellino di scenografia che i miei genitori mi avevano comprato: un oggetto incantato! E c’erano tre letti, uno grande e due singoli, che ci scambiavamo continuamente. Eravamo noi, a riempire lo spazio, con la nostra immaginazione». E con le note. «Nina Simone (la grande cantante americana jazz, ndr), France Gall (filone yéyé, ndr), Serge Gainsbourg (il cantautore e poeta francese, ndr), soprattutto le sue cose più “dark and sex”: l’adoro, sempre! E la voce di Georges Moustaki, anche se non capivo niente del senso politico delle sue canzoni. Poi, tanto reggae: Shabba Ranks, che ora che ci penso è una brutta roba, ma io l’adoravo. Era drammatico e trash, con tutti quei bit! Il suo è stato il mio primo concerto, da bambino, in Virginia. Avevo 8 anni: ricordo che, entrando, perquisirono anche me per verificare se avevo pistole! Una figata! Era assurdo, ma lì pensai: sono adulto».
Invece dovevano ancora venire il dolore e le umiliazioni subite da insegnante e bulli... «E la salvezza, con il canto all’Opera House londinese. Le persone cominciarono a usarmi rispetto, questo ha cambiato la mia vita. Perciò io credo in una legge: by putting someone in beauty, you provoke beauty, la bellezza si provoca con la bellezza. A Hillhaeursen, in Alsazia, ho dei cari amici – gli Haeberlin – che da generazioni gestiscono un ristorante. L’Auberge de l’Ill, si chiama». È uno dei più famosi ristoranti nel mondo. «Tre stelle Michelin, sì. Ma la cosa che mi entusiasma è che Danielle e Marc prendono tutti questi bambini cacciati da scuola e finiti in un programma di riabilitazione per droga, o anche solo per assenze ingiustificate, e insegnano loro come gestire un ristorante, servire a tavola, cucinare. Poi danno loro il ristorante per una cena a cui vengono invitati i responsabili del programma, i loro genitori, i capi del penitenziario giovanile, gli insegnanti. E quella sera sono loro gli chef del ristorante pluristellato! Il principio è lo stesso: se dai a qualcuno la possibilità di essere dentro qualcosa di positivo, farà qualcosa di buono. Comunque, vale anche il contrario!».
Ora Mika torna a lavorare con i giovani di X Factor. «Quando entri nel mondo della musica, perdi il contatto con le persone che sono come eri tu prima del successo. Il talentshow mi ha riportato a quando ero un diciottenne senza vergogna che cercava di sfondare. Avevo “fame” ed ero spietato con me stesso. Volevo fare sempre meglio». Diverso da questi ragazzi? «No, percepisco molte somiglianze con alcuni di loro. Soprattutto quando li vedi imparare. Come lo zingaro che partecipava al talent francese The Voice. Viveva in una roulotte, non sapeva né leggere né scrivere, imparava tutto a orecchio. Ammirevole». Certo, una volta dentro il meccanismo dello show biz, restare puri sembra un miracolo. «Puoi, ma solo se ti consenti di divertirti. E conservi il senso dell’umorismo. È la cosa più importante. Allora sì, sai ancora riconoscere quando le cose sono giuste o sbagliate. E non finisci preda delle paure». Mika parlerà poi anche di “umorismo spietato”. «L’ho messo anche nel nuovo album», spiega. «Fra i brani che sto terminando di registrare a Los Angeles – dovrebbero uscire a fine anno o poco dopo –, ce n’è uno che s’intitola All she wants is another son. Parla di una madre che forza il figlio a sposare una ragazza “trofeo” – ovviamente non c’è niente di personale – per poter scattare delle foto del matrimonio e mandarle alla propria madre a Beirut. “All she wants is another son/ all she wants is another simple solution /for my mother delusion. Get some adorable pictures done/ for her mother in Lebanon, canta il coro». Si ferma, accennando l’anticipazione, e sorride.
Endorfine vs. cannabis. L’altro punto importante è continuare a fare cose concrete, con gli altri. «Ho appena dato uno spettacolo durante un torneo di golf, in Francia. Ero sul palco, davanti a 120 invitati, con due musicisti della mia band. Suonavo, cantavo, parlavo, e pensavo: “Mi pagano anche!”. Sensazioni bellissime come queste, l’energia che danno, le endorfine e le dopamine, tengono la gente lontana dalla ricerca di altri paradisi, come la droga». Il cui consumo, invece, dicono le recentissime statistiche, è in aumento fra i ragazzi, a cominciare dalla cannabis. «Ma lo è davvero? O è che la gente ha meno timore di ammettere di fumarla? Anche se io non fumo, – anzi, trovo sia molto difficile essere produttivo con cose del genere –, penso che ci sia piuttosto la fine della stigmatizzazione della marijuana, il che per me è positivo».
Chissà quanti bulli “modello pratidi Westminster” ascoltano oggi la sua musica. Magari pure fra i golfisti dell’ultima festa... Una bella rivincita. «Contro il bullismo, la prima cosa è sapere che è normale sentirsi una schifezza. Normale! Chi subisce deve sapere che il modo in cui si sente non è sbagliato. È la situazione che li fa sentire così. Non vergognatevi mai. Perché la verità è che invece cominci a odiare te stesso. A nasconderti. A non dire a nessuno cosa ti sta succedendo. Invece, parlate! C’è sempre una soluzione. Inoltre bisogna capire, e non è facile, che il tempo passa velocemente, e le cose che sembrano enormi adesso, appariranno piccolissime in futuro. Guardatele in prospettiva. Vi sentirete meglio. E poi, le piccole cose che riuscite a fare oggi per stare meglio, rapidamente acquisteranno un senso. Vi piace disegnare? Magari ciò che fate oggi vi sembra uno scarabocchio, ma questi scarabocchi un giorno possono cambiare la vostra vita. Se vi piace cucinare, potete pensare che siete solo ghiotti e grassi, e invece quella passione può cambiare la vostra vita. Vi trattano da nerd perché amate la matematica? La matematica è arte, e il futuro è dei matematici. Ogni cosa ha un valore. Questo mi piacerebbe trasmettere a tutti coloro che sono schiacciati dal bullismo, che è un processo di svalutazione. Non solo di ciò che sei, ma di tutto ciò che ti sta intorno. I tuoi vestiti sono stupidi, tu sei stupido, la tua macchina non vale niente, i tuoi genitori sono grassi, tua sorella è una p..., la tua religione è falsa e la mia è migliore, tu sei gay e la tua sessualità non è buona quanto la mia, tu sei un pervertito e io sono un santo. È allo stesso tempo intimidazione e controllo. È il modo in cui la gente svilisce tutto ciò che ti riguarda, dai tuoi genitali alle tue sneakers. E vogliono che tu non sia più capace di guardarti allo specchio, di guardare la tua famiglia, o ciò che hai, con orgoglio. L’unico modo per combattere il bullismo è ribadire sempre che ogni cosa ha un valore, anche le piccole cose che per te hanno comunque importanza».
Un’orazione, di chi ha subito e si è riscattato, che dovrebbe essere quasi letta nelle scuole. Mika è lanciatissimo. «È la metafora di Winnie the Pooh. Nel libro, lui è l’unico dei personaggi che vede che ogni cosa ha un valore, mentre il gufo Uffa pensa di sapere tutto e non capisce niente, e Pimpi sa tutto ma ha paura di tutto. Ecco, la musica, come l’arte, offre una differente inquadratura della vita, creando un valore che può provocare un senso di positività».
Le preghiere di Papa Francesco. La stessa cosa, incalza, «vale nella religione». È inarrestabile: neppure il tempo che incombe per un volo da prendere per Bruxelles, da bravo globetrotter dello spettacolo, lo interrompe. «La religione dice: questo è giusto e questo è sbagliato. Questo vale e questo no. Ebbene, la cosa incredibile del nuovo Papa è che sta sfidando il tradizionale autoritarismo. Ma questo è anche l’unico modo per andare oltre il sistema antiquato della Chiesa, soprattutto in quelle società in cui c’è la concorrenza forte dell’evangelismo, dal Sud al Nord America». Come Bergoglio sa bene. Ne avrà la forza? «Francesco è il tipo di Papa che prega non di avere la forza di fare le cose, ma piuttosto di avere la forza di fermarsi dal farne troppe!».
E chiaro, allora il motivo per cui i modelli a cui ispirarsi, secondo Mika, sono gli «antisnob»: «Come il musicista tedesco Kurt Weill, che compose sinfonie – io faccio solo canzoni – ma amava anche scrivere pop song. O il drammaturgo francese Jean Cocteau, che si divise fra teatri rarefatti e film commerciali. O il grandissimo pianista canadese Glenn Gould, che amava fare anche tv: “He put out”, come dicono in America». Espressione colorita che, alla lettera, significa “l’ha data via”. «Così, alla fine anch’io “put out”. Ho deciso di fare X Factor e di non isolarmi più». Un talent in Francia, la canzone per uno spot di birra in Spagna, un orologio Swatch. Dov’è il limite? «Se faccio qualcosa deve essere relativo a una materia che conosco. Nel mio caso, musica e design. La pubblicità di un operatore telefonico? Ha a che fare solo con il modo in cui la musica viene promossa oggi, diverso rispetto a 20 anni fa».
Una domanda finale, a una giovane star che l’Italia ha cominciato a conoscere bene: questo è o non è, per Mika, un Paese per giovani? «I ragazzi, qui, dicono sempre “non c’è lavoro”: ma la cosa bella è che c’è la vita nella strada. In Francia, per esempio, la vita è sempre dietro una porta chiusa; Los Angeles è un luogo in cui tutto ciò che vorresti fare è collegato e dipende dai soldi, mentre in Inghilterra ogni cosa viene riferita ai grandi brand: c’è un bravo designer? Sì, lavora per questa o quella griffe. Un artista? È nella Saatchi Gallery! Ecco, città come Stoccolma e Copenaghen offrono tanto di più; ma in fondo anche in Italia, dove la comunicazione è apprezzata, i giovani parlano, e questo ha un effetto positivo su tutto. Certo, sarebbe stato fantastico essere giovane qui al tempo del grande boom...». E oggi, dove andrebbe? «A Montreal, in Canada. Lì c’è una cultura fresca, un’energia creativa straordinaria. C’è l’idea che tutto sia possibile. Nell’arte, nella musica. Dicono: perché no, proviamoci? Così vengono fuori talenti come il brillante regista 25enne Xavier Dolan (con Mommy ha vinto il premio della Giuria a Cannes ’14, ndr). Là, in Québec, si prendono i rischi con i giovani senza pensare sempre al denaro. Cercano un loro spazio tra l’influenza dei vicini statunitensi, le radici europee, un sistema sociale dotato di welfare e la protezione della loro autonomia culturale. Un bel mix». Alla base, sempre la stessa regola: “bellezza genera bellezza”. Chissà che anche sui verdi prati di Westminster, e oltre, qualcuno non possa finalmente impararla.