Fabrizio Saccomanni, l’Espresso 3/10/2014, 3 ottobre 2014
In California sta nascendo il vero terremoto– Disruption" (sconvolgimento, rottura) è la parola che ho sentito usare con maggiore frequenza nella West Coast americana dai protagonisti dell’innovazione tecnologica e finanziaria
In California sta nascendo il vero terremoto– Disruption" (sconvolgimento, rottura) è la parola che ho sentito usare con maggiore frequenza nella West Coast americana dai protagonisti dell’innovazione tecnologica e finanziaria. Dopo l’imprevista fine del mio incarico ministeriale, non potendo, per legge, impiegarmi in nulla di profittevole per dodici mesi, ho pensato di fare, a mie spese, un viaggio di apprendimento per capire quali fossero i cambiamenti in atto nella frontiera dell’innovazione per antonomasia che va dalla Silicon Valley a San Francisco, a Seattle. Così ho visitato giganti come Microsoft, Amazon, Apple, PayPal, ma ho anche incontrato dirigenti di numerose imprese meno note e in rapida crescita che utilizzano nuove tecnologie per fornire un amplissimo spettro di servizi, dal software per la virtualizzazione di processi alle infrastrutture per il cloud computing, dai prodotti per l’analisi del rischio di credito ai sistemi di pagamento in tempo reale e alle monete virtuali. C’è un sentimento diffuso che una nuova era del progresso tecnologico e informatico stia per iniziare e sconvolgerà gli attuali equilibri nei sistemi produttivi, nei mercati dei beni e dei servizi, nella finanza. Sembra una riedizione della "distruzione creativa" che Joseph Schumpeter teorizzò nel 1942 per spiegare la dinamica dell’impresa innovativa. Ma in realtà si profila una vera e propria rivoluzione di dimensioni vaste che interesserà simultaneamente tutti i settori dell’economia, offrendo nuovi prodotti e servizi a miriadi di famiglie e imprese. Saranno profondamente modificati i rapporti tra produttori e consumatori, imprese consolidate cadranno preda di upstart innovative, alcune professioni e mestieri scompariranno, cambieranno radicalmente i prezzi e i costi relativi dei nuovi prodotti e servizi, diverranno sempre più tenui i confini tra banche e imprese come fornitrici di fondi all’investimento e all’innovazione. TUTTO SARÀ SMAC Le determinanti della rivoluzione tecnologica - mi spiega Pat Gelsinger, fondatore e ceo della VMware che produce virtual machines - si riassumono nell’acronimo SMAC: "S" sta per Social e si riferisce all’enorme massa di dati e di informazioni disponibile sui social network; "M" sta per Mobility, parola che copre lo straordinario spettro delle funzioni dei telefonini mobili; "A" sta per Analytics e si riferisce al lavoro di ricerca che le teste più brillanti della Silicon Valley stanno compiendo per inventare nuovi algoritmi capaci di fornire servizi utili con un tocco su uno smartphone; "C", infine, sta per Cloud, ossia il potenziale di calcolo e di elaborazione dei dati della "nuvola" composta dalla somma delle potenzialità di elaborazione non pienamente utilizzate dai sistemi informatici esistenti. SMAC si sta già diffondendo, ma coesiste con le fasi precedenti dello sviluppo informatico da cui ancora dipendono aziende che non hanno colto le opportunità del progresso tecnologico. Le banche, ad esempio, anche quelle americane, operano ancora con sistemi basati su grandi mainframes collegati a terminali da tavolo. Altre imprese operano già su Internet con personal computer. SMAC sarà per tutti il passo successivo, per scelta o per effetto della "disruption". In parallelo, si sta sviluppando una rete di sensori in grado di inviare agli smartphone ogni sorta di "segnale" esterno che possa orientare le scelte dei possessori. La stessa auto elettrica che si guida da sola e che viene monitorata a distanza per il "tagliando", è una realtà ormai a portata di mano e viene considerata dai tecnici come uno smartphone a quattro ruote. Nessuna delle imprese che ho incontrato ha il minimo timore di non riuscire a finanziare i propri progetti. Quando faccio domande sui rischi di "credit crunch" o di scoppio di eventuali bolle speculative in borsa (in fin dei conti la cosiddetta bolla delle "dot.com" è ancora di recente memoria), i miei interlocutori mi ricordano che la stretta creditizia generata dalla crisi di Lehman Brothers ha colpito il credito al consumo e i mutui ipotecari, da cui era originata; ma le imprese veramente innovative e sane hanno sempre trovato finanziatori tra le società di "venture capital", altri intermediari non bancari, o in Borsa. Quali saranno i settori più profondamente rivoluzionati da questi sviluppi tecnologici è materia di congetture. Certamente il commercio al dettaglio, già attaccato da tutte le parti da Amazon, e-Bay e simili, subirà altre radicali trasformazioni, a mano a mano che si amplierà il catalogo dei beni e dei servizi acquistabili col telefonino. Solo una fantasia sfrenata può immaginare quali trasformazioni comporterà lo sviluppo di Internet of Things (l’Internet delle Cose), ben descritto nel recente libro di Jeremy Rifkin, "La società a costo marginale zero", Mondadori ("l’Espresso" n. 35). ADDIO BANCHE Ma il settore che subirà l’impatto più forte dalla combinazione di innovazione informatica e finanziaria è quello delle banche, tema per il quale ho un ovvio interesse, da ex banchiere centrale. Me lo spiega Bob Huret, fondatore di FTVCapital, una società che investe in imprese innovative, con alcune slides dal titolo evocativo: "The Coming Disruption in Financial Services". Le banche sono sotto attacco su vari fronti: l’attività di prestito viene sempre di più svolta da intermediari non bancari, come le società di private equity e di venture capital; anche la valutazione del rischio di credito, funzione essenziale di banca, viene svolta da imprese specializzate che usano i big data disponibili nella cloud per calcolare il credit scoring di potenziali clienti vendendoli a potenziali finanziatori. Ma è il modello organizzativo tradizionale delle banche, basato su una grande rete di sportelli gestiti da un gran numero di impiegati, che rischia di scomparire. Lo sviluppo di macchine dotate di intelligenza artificiale e di capacità di apprendimento consentirà lo svolgimento di funzioni bancarie in tempi più rapidi, a costi più bassi e su volumi più ampi di quelli ottenibili con personale umano. Un esempio è il sistema per l’analisi delle frodi su carte di credito già adottato dalle maggiori compagnie del settore. Lo sportello bancario tradizionale è quindi destinato a subire radicali trasformazioni, anche culturali, per quanto riguarda i rapporti con la clientela, sempre più abituata ad operare online. A Microsoft mi citano ad esempio una nuova banca olandese online che si chiama KNAB (ossia l’inverso di BANK). KNAB ha un approccio radicalmente innovativo all’attività bancaria (già implicito nel nome), con una piattaforma Microsoft che copre tutte le possibili operazioni di gestione bancaria. OLTRE LA MONETA Ma il fronte sul quale l’attacco delle nuove tecnologie al sistema bancario sarà ancora più dirompente è il sistema dei pagamenti. Mi portano su questo fronte gli esperti che lavorano nel settore delle virtual currencies (monete virtuali) come i bitcoin. Sapendo da dove provengo, i miei interlocutori si affrettano a dirmi che i bitcoin non hanno per obiettivo di soppiantare le monete tradizionali (dollaro, euro e yen) e che le preoccupazioni dei banchieri centrali circa il rischio di perdita del controllo monetario e di inflazione sono esagerate e mal riposte. Le monete virtuali sono, in realtà, lo strumento con cui si vuole rendere sempre più efficiente il sistema dei pagamenti a livello globale. Chris Larsen, ceo e fondatore di Ripple, mi dice che il suo obiettivo è di rendere il sistema dei pagamenti e il trasferimento di fondi rapido, sicuro ed economico come il trasferimento di informazioni, ossia in tempo reale e a costo quasi nullo. Secondo Larsen, il sistema dei pagamenti attuale è ancora su livelli "pre Internet" e si basa su una rete di intermediari con problemi di costo e rischi di ritardi, di liquidità e di controparte. In futuro il sistema potrà fare a meno della rete di corrispondenti bancari e "trasferire valore" sulla base di un Protocollo Globale dei Pagamenti, su cui Ripple sta già lavorando. Il settore è in costante movimento e in California si seguono con grande interesse gli sviluppi nella UE con la SEPA (Single Euro Payments Area), il progetto per la semplificazione dei trasferimenti bancari in euro; o in Africa con il sistema M-pesa, il meccanismo di pagamento attraverso la telefonia mobile, iniziato da Vodafone in Kenia e Tanzania e rapidamente diffuso in Afghanistan, India ed Europa orientale. E non è un caso che e-Bay, il leader del commercio elettronico, dopo aver acquisito PayPal per semplificare le procedure di pagamento nelle monete di numerosi Paesi, stia ora utilizzando i bitcoin come mezzo di pagamento virtuale, scavalcando il passaggio da una moneta all’altra. In questo scenario tetro, le banche tradizionali non sembrano avere un gran futuro, salvo che per un aspetto. Esse potranno sopravvivere se sapranno sfruttare al meglio la grande massa di dati da loro gestita e che copre le scelte di spesa e di investimento della loro vasta clientela, delle famiglie e delle piccole e medie imprese. Le banche, in altre parole, dovranno divenire sempre più dei consulenti finanziari e impadronirsi delle nuove tecnologie per la gestione dei pagamenti. Insomma, in un mondo in cui la tecnologia è in grado di sfruttare al massimo i "big data" chiunque controlla una porzione significativa della torta delle informazioni può guardare al futuro con relativo ottimismo e con qualche speranza di uscire indenne dalla disruption. IL VECCHIO CONTINENTE Alla fine di questa fitta agenda di incontri e di discussioni restano una serie di interrogativi e di dubbi sulla sostenibilità delle tendenze in atto e sulla loro applicabilità all’Europa e specialmente all’Italia. Nessuno dei miei interlocutori è preoccupato per l’impatto della disruption sull’occupazione, un tema che in Europa e in Italia ha assunto proporzioni assai gravi. Il problema non li tocca poi tanto: il progresso tecnologico ha sempre distrutto lavoro in settori divenuti obsoleti e ha creato occupazione in settori emergenti. Ci saranno problemi di transizione, ma questa è materia per i governi non per le imprese innovative. E sulla West Coast il governo appare lontano in tutti i sensi. Washington è all’altra costa del Paese e nessuno dei miei interlocutori pensa all’intervento pubblico per risolvere i problemi dell’impresa, dell’investimento e dell’innovazione. Qualche dubbio è legittimo, ma non si può non restare colpiti dall’incrollabile fiducia che tutti sembrano condividere nella forza propulsiva del progresso tecnologico e nella capacità delle imprese private di svilupparne l’enorme potenziale. Colpisce tanto più chi, come me, viene dal Paese dove l’agevolazione fiscale o di tasso d’interesse, l’incentivo a fondo perduto, lo sgravio contributivo, la garanzia statale, la "politica industriale", sono sempre al primo posto nel dibattito sulle condizioni necessarie per riattivare la crescita e l’occupazione. Nell’attesa, tutto è fermo. Per carità, non che siano misure inutili, ma la spinta alla ricerca, all’innovazione deve avere precedenza e deve venire dall’interno dell’impresa. Neppure sembra destare preoccupazione l’enorme concentrazione di potere di mercato e finanziario nei giganti dell’informatica. Anche qui c’è fiducia che la nascita di nuove imprese e la concorrenza terranno a bada le spinte monopoliste dei giganti. Alcuni giovani imprenditori sostengono che i giganti sono già diventati dei "dinosauri" che hanno perso la forza innovativa e sono frenati dall’eccesso di burocratizzazione e dalle loro stesse dimensioni. Resta il fatto che i giganti dispongono di un tale volume di liquidità che consente loro di acquisire ogni possibile rivale senza dover far ricorso al vaglio del mercato dei capitali o, tanto meno, delle banche. Sarà fondamentale, in questo contesto, il ruolo della autorità di tutela della concorrenza e del mercato, sia negli Stati Uniti, sia in Europa. Inoltre, proprio su queste imprese globali si concentreranno le pressioni dei governi per rafforzare le regole di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale, attraverso l’erosione degli imponibili e lo spostamento dei profitti verso "paradisi fiscali". Su questa strategia si è formato un ampio consenso nell’ambito del G-20. IL SEGRETO DELLA RICERCA Altra domanda: come mai il trasferimento delle invenzioni tecnologiche alle imprese avviene assai più rapidamente in California e dintorni di quanto accada in Europa e soprattutto in Italia? In parte la risposta viene dalla diversa natura dell’ordinamento giuridico delle imprese, della fiscalità e del sistema finanziario. Ma il fattore che mi è sembrato ancora più importante sta nel rapporto stretto e interattivo tra i centri di ricerca e il mondo delle imprese. Alla Stanford University ho scoperto che Sun Microsystems, una delle prime imprese informatiche americane fondata negli anni Ottanta da tre laureati di Stanford, scelse il nome SUN perché è un acronimo di Stanford University Network, a testimoniare il legame tra università e impresa. Dai colloqui avuti con docenti delle università della California mi viene la conferma che la collaborazione tra università e imprese prospera; sono numerosi i casi di professori che fondano imprese per lo sfruttamento delle loro scoperte scientifiche, trovando sul mercato i capitali necessari, senza che ciò ostacoli la loro attività di docenti e ricercatori. In Italia, invece, salvo poche eccezioni, vi sono ancora barriere insormontabili tra università e imprese, erette nella erronea convinzione che si sarebbe in tal modo protetta l’autonomia della ricerca scientifica dalle lusinghe perverse del profitto. Col risultato che l’università non ha i fondi per fare ricerche che servano veramente all’economia e le imprese sono costrette (quelle che possono) a investire da sole in ricerca e sviluppo. Anche questa è una riforma strutturale che l’Italia deve mettere in agenda se vuole frenare il deterioramento sia del suo capitale industriale, sia del suo capitale umano, causa prima della perdita di produttività e competitività. E parlando di capitale umano, ho visto che ci sono moltissimi italiani che lavorano e insegnano nella West Coast: sono la prova vivente della nostra incapacità di frenare la fuga dei cervelli. Penso a gente come Luca Maestri, Chief Financial Officer di Apple a Cupertino; Diego Piacentini, Senior Vice President di Amazon a Seattle; Riccardo Di Blasio e Simone Brunozzi, giovani dirigenti di VMware a Palo Alto; Alberto Sangiovanni Vincentelli, professore di Electrical Engineering and Computer Sciences a Berkeley; Alberto Salleo, professore di Materials Science a Stanford; e tanti altri giovani di cui non so il nome e che ho intravisto nei campus delle imprese della Silicon Valley. Forse si dovrebbe fare uno sforzo innovativo per creare le condizioni per il "rimpatrio" di queste preziose risorse umane, non tanto sul piano economico, che onestamente appare assai difficile, ma almeno su quello dell’autonomia professionale e gestionale. Infine, mi resta il dubbio che non sia affatto vero che le monete virtuali non finiranno per soppiantare le monete tradizionali, e con esse il vecchio - screditato - strumento della svalutazione competitiva del cambio. Viene in mente Robert Mundell, premio Nobel per l’economia, e il suo famoso slogan: "One world, one money" (un mondo, una moneta). Certo ci vorrà molto tempo e ci saranno forti resistenze di tutte le parti in causa. Ma la pressione per dar vita ad un sistema dei pagamenti globale, usando nuove tecnologie, sarà fortissima; la pluralità delle monete e le loro oscillazioni finiranno per essere visti come ostacoli allo sviluppo del commercio, dell’investimento e dell’innovazione. Sarà una lotta titanica; ne vedremo - o meglio, ne vedrete - delle belle.