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 2014  ottobre 03 Venerdì calendario

LA PARALISI FRANCESE FRA RIGORE DI BRUXELLES E PROTESTA SOCIALE

La ribellione della Francia al patto di Stabilità riaccende il dibattito europeo fra partigiani della crescita e fautori del rigore, come se crescita e rigore dei conti non fossero compatibili.
Il termine «ribellione» colora d’ideologia una questione molto concreta e molto interna alla politica francese, di cui l’Europa rischia di pagare conseguenze imprevedibili. Il presidente François Hollande ha buon gioco nello spingersi su questo terreno, sperando in cedimenti tedeschi e sponde italiane e spagnole, come se appunto la crescita dipendesse dalla supremazia di una visione teorica, invece che da scelte politiche e condizioni strutturali dello Stato francese.
La stessa cancelliera tedesca Angela Merkel, ripetendo il ritornello dei «compiti a casa», gli dà una mano, perché non c’è niente di peggio che provocare il nazionalismo transalpino e il rifiuto di accettare lezioni da chicchessia.
Invocando crescita e sviluppo, Hollande trova naturalmente udienza negli ambienti europei che puntano il dito contro la miopia e l’egoismo di Berlino. Se è vero che l’austerità è un freno alla crescita e che i rimedi finora adottati si sono rivelati, anche per la Germania, peggiori del male, la Francia si erge a paladina di un’altra visione, giocando la sola carta che le resta in mano: quella del peso politico negli affari europei, indispensabile e non aggirabile nemmeno dai tedeschi.
Ma le cose, almeno per la Francia, non stanno come il presidente vorrebbe far credere. E il problema non sono nemmeno i dati, peraltro sconfortanti, dell’economia: debito pubblico oltre la soglia dei duemila miliardi, crescita debole, competitività internazionale in forte ribasso, bilancia commerciale in rosso.
Il problema consiste nell’incapacità/impossibilità di riformare in profondità un modello sociale e statuale che divora oltre la metà della ricchezza nazionale senza nemmeno riuscire a garantire e a proteggere i ceti sociali per i quali è stato concepito nel dopoguerra gollista. Costo del lavoro, spesa sanitaria, ammortizzatori sociali si sommano a una giungla inestricabile di sprechi e privilegi di casta o di categoria, in particolare nel pubblico impiego. La concertazione fra le parti sociali è quasi sempre senza sbocco, umiliata da veti incrociati che spesso comportano una soluzione sulle spalle del contribuente. Quando il governo socialista, con un certo volontarismo, prova a impugnare (non certo affondare!) il bisturi, è costretto a frenare, a rimangiarsi promesse, fino a venire smentito e criticato — prima che da Bruxelles — dalla propria Corte dei conti. E quando le grandi imprese pubbliche o semipubbliche provano a stimolare efficienza e competitività raramente conseguono l’obiettivo: l’ultimo caso è quello dell’Air France, bloccata per due settimane dallo sciopero dei piloti.
A questo scenario, si sovrappongono errori strategici e calcoli sbagliati di Hollande, il quale, sull’onda della conquista dell’Eliseo, si era illuso di poter affrontare i nodi strutturali con delicatezza e consenso, sperando nel ritorno di un ciclo economico favorevole che avrebbe rilanciato consumi e occupazione.
Quando è stato costretto a prendere atto che la ripresa è ancora lontana, è corso ai ripari, ha bruciato premier e ministri, ma i primi tagli e sacrifici imposti dal nuovo governo di Manuel Valls hanno innescato la reazione sociale, il voto di protesta, i dissensi nelle file della maggioranza, le sconfitte elettorali, la caduta verticale del proprio consenso.
In questo scenario a tinte fosche, un presidente sempre più debole e inviso al Paese non aveva altra scelta che uno scatto d’orgoglio che spostasse l’attenzione dell’opinione pubblica ed evitasse ancora una volta ai francesi di guardarsi allo specchio. Impossibile fare i «compiti a casa», quando è già complicato aprire i quaderni.
Al di là delle regole di Bruxelles e del rigore di Berlino, la crisi francese è dunque prima di tutto strutturale, politica e istituzionale e apparentemente priva di soluzioni a breve termine. Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen è il primo partito e coagula sentimenti populisti e antieuropei. La base sociale del partito socialista si è ridotta alle categorie del pubblico impiego. La destra repubblicana è in cerca di un progetto coerente e per il momento è dilaniata dallo scontro per la leadership: gli ex premier Alain Juppé e François Fillon uno contro l’altro, e Nicolas Sarkozy contro tutti.
A Hollande non resta che galleggiare guadagnando tempo, trasformando in alibi le regole di Bruxelles, cercando alleati nel confronto con Berlino. In questi anni all’Eliseo ha accumulato soltanto critiche e talvolta feroce ironia. Molti sembrano dimenticare che il galleggiamento, unito all’intuito, è proprio la sua arma migliore. La sua politica divide gli avversari e non fa nulla per rimuovere le cause dell’avanzata del Fronte. La Francia è troppo grande e importante per fallire. Alla fine, potrebbe salvarsi anche lui. Ma è meglio non imitarlo.